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Lunedì 2 aprile alle 11 al Cineporto di Bari, è convocata la conferenza stampa di presentazione del documentario “In me non c’è che futuro…” -Ritratto di Adriano Olivetti – di Michele Fasano, realizzato in due parti da 72 minuti dalla Sattva Films. All’incontro interverranno il regista e produttore Michele Fasano e Daniela Mattia in rappresentanza dell’Associazione ManagerZen, partner insieme all’Apulia Film Commission dell’iniziativa “Road Show Adriano Olivetti” e con il patrocinio della Presidenza della Giunta Regionale della Regione Puglia, della Fondazione Adriano Olivetti, di Confindustria Puglia, di CGIL Puglia e il Comune di Matera.
Il documentario, a partire da martedì 2 aprile, seguirà un percorso di proiezioni, ma anche di presentazione del libro allegato al DVD sul modello sociale, politico, economico olivettiano, che saranno programmate nelle sale del circuito D’Autore di Apulia Film Commission alla presenza del regista e produttore Michele Fasano.
S’inizia, martedì 3 aprile alle 17.30, con la proiezione al Cinema DB D’Essai, mentre il 27 aprile (alle 17.30) alla Sala Farina di Foggia e al Cinema ABC di Bari, l’11 maggio. Previste anche le proiezioni al teatro Comunale Rossini di Gioia del Colle (12 aprile alle 17.30) e alla Casa Cava di Matera (25 maggio alle 20).
C’è stato un momento, a metà degli Anni ‘60 del XX secolo, in cui un’azienda italiana ebbe l’occasione di guidare la rivoluzione informatica mondiale, 10 anni prima dei ragazzi della Silicon Valley: Steve Jobs e Bill Gates. Una rivoluzione tecnologica che aveva le sue radici in una rivoluzione culturale e sociale, in un modello industriale pensato al di là di Socialismo e Capitalismo, che il suo promotore, Adriano Olivetti, aveva cominciato a sperimentare sin dagli Anni ‘30 a Ivrea, in provincia di Torino. La Olivetti arrivò ad essere la più grande azienda italiana, con il maggior successo commerciale internazionale, capace di coprire un terzo del mercato mondiale del suo settore. Una multinazionale atipica: con un forte radicamento territoriale, caratterizzata da politiche sociali avveniristiche, formazione permanente e attività culturali di respiro internazionale, che furono il segreto del suo successo commerciale e non la conseguenza filantropica o mecenatistica dei suoi profitti. Come nacque tale modello imprenditoriale? In che consisteva il suo stile gestionale, pensato all’insegna della socializzazione delle conoscenze e della responsabilità sociale dell’impresa? che promuoveva anche un modello alternativo di società , più giusta e più libera? e che condusse alle soglie della più grande occasione industriale che l’Italia abbia mai avuto?
Il film soddisfa tali curiosità descrivendo i tratti essenziali del modello olivettiano, con l’effetto di rendere evidente la sua efficacia, la sua applicabilità ancora attuale. Colpiscono, a riguardo, gli esiti “olivettiani” di una ricerca che per cinque anni (dal 2000 al 2004) un gruppo di tecnologi ed economisti del Massachusetts Institute of Technology ha condotto su circa 500 imprese statunitensi, europee e asiatiche. Ne risultò che le imprese multinazionali con duraturo successo nel mercato globale oggi siano quelle che “olivettianamente” investono sullo sviluppo delle proprie “competenze distintive”, mantenendole difficilmente imitabili dalla concorrenza, dandosi obiettivi a lungo termine. In altre parole, hanno successo oggi le imprese che investono nei talenti delle loro persone, che migliorano le condizioni del loro lavoro e del lavoro di chi usa i loro prodotti e si avvale dei loro servizi; mantiene e migliora il suo contributo l’impresa che intende evolvere ed innovare: sul piano tecnologico, ma anche sociale, organizzativo e psicologico; che sa adeguarsi alle variazioni di quantità o qualità della domanda, reagire al declino di certe aree di mercato o allo sviluppo di altre, rispondere ai mutamenti di scenari economici e politici, in modo non solo reattivo, ma anche propositivo, per prevedere e influenzare positivamente i cambiamenti. Ciò impegna nella ricerca, nello sviluppo, nell’aggiornamento di tutte le competenze, non solo tecnologiche, per progettare flessibilmente il futuro e non ristagnare, magari scaricando sulla precarietà della forza lavoro e la devastazione dei territori il suo passivo e precario adattamento all’ambiente.
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