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MERCOLEDI’ 21 ALLE 18 ALL’EX PALAZZO DELLE POSTE A BARI (VIA NICOLAI) S’INAUGURA LA PRIMA EDIZIONE DELLA RASSEGNA “FRONTIERE – LA PRIMA VOLTA”.
IL PROGRAMMA DELLA PRIMA GIORNATA PREVEDE, ALLA PRESENZA DEGLI AUTORI, IL VERNISSAGE DELLA MOSTRA FOTOGRAFICA “LA PRIMA VOLTA DI GIANNI BERENGO GARDIN, FERDINANDO SCIANNA E OLIVO BARBIERI” A CURA DI PIER GIORGIO CARIZZONI (VISIBILE FINO AL 23 OTTOBRE), MENTRE AL CINEMA ABC INIZIA LA RETROSPETTIVA A INGRESSO LIBERO “MAESTRI ESORDIENTI”.
S’inaugura, mercoledì 21 alle 18 nell’ex Palazzo della Poste di Bari (via Nicolai), la prima edizione della rassegna “FRONTIERE – La prima volta”. Il programma della prima giornata prevede, alla presenza degli autori e del curatore, il vernissage della mostra fotografica “La Prima volta di Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna e Olivo Barbieri” a cura di Pier Giorgio Carizzoni, visibile fino al 23 ottobre. Al cinema ABC, invece, si darà inizio alla programmazione dei film a ingresso libero della retrospettiva “Maestri Esordienti”, con la proiezione dopo tantissimi anni sul grande schermo del capolavoro di Charlie Chaplin “Il Monello” (alle 20) e “Il Posto” del maestro Ermanno Olmi (alle 22).
Il filo rosso della mostra “La Prima volta di Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna e Olivo Barbieri” a cura di Pier Giorgio Carizzoni, è la fotografia intesa come memoria e spirito del tempo, testimonianza, documento storico, ritrovamento, specchio in cui rifrangere quel che eravamo a confronto con quello che siamo diventati.
Per un fotografo, come per qualsiasi autore o artista, non è sempre immediato il riconoscimento di una “prima volta” quale segno tangibile di un “inizio” che si fa esperienza fondante, riferimento preciso, frontiera che si apre.
Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna e Olivo Barbieri, i tre autori che qui espongono le loro opere, parte delle quali inedite, ci conducono per mano a visitare la loro “prima volta” in contesti assai diversi: Berengo Gardin a Venezia – sua città d’adozione – tra il 1953 e il 1960, Scianna, negli anni Sessanta, dalla sua natia “amata- odiata” Bagheria/Baaria con escursioni in altre zone della Sicilia, Barbieri all’interno di un non identificabile deposito abbandonato dove, nella seconda metà degli anni Settanta, furono ammassati i resti di decine di flipper.
Non v’è nulla di nostalgico nelle 77 immagini in mostra: la “camera oscura” della memoria, come la definisce Scianna, emerge alla luce per raccontare quanto siamo cambiati, così vicini/così lontani dalle donne e dagli uomini che hanno attraversato le nostre stesse strade. Volti, paesaggi, cose, ci invitano a riflettere sulle grandi trasformazioni avvenute aprendoci a una maggior consapevolezza del presente, inducendoci a “guardare” con occhio attento e partecipe la realtà di ieri che è destino comune, incancellabile.
Berengo Gardin rappresenta Venezia come città universale, antitesi della città -cartolina; ne descrive la quotidianità costellata di frammenti di vita che scorrono dolcemente attorno alle acque della laguna ed emanano un senso di quiete e di sognante pacatezza. Al di là della sua proverbiale, solo apparente immobilità , Venezia si è trasformata notevolmente dagli anni Cinquanta ad oggi: lo sguardo volutamente “ingenuo” di Berengo la restituisce “vera”, necessaria nella sua incommensurabile bellezza, senza enfasi né compiacimento, con la discrezione affettuosa di un innamorato che non si fa influenzare dai segni di una incipiente vecchiaia o di un degrado inarrestabile.
I flipper di Barbieri, ovvero i bigliardini elettronici che campeggiavano nei bar degli anni Sessanta e inizio Settanta, assurgono a vistose icone di quel tempo, vetrofanie kitsch in cui si stagliano procaci pin-up, stelle della musica beat e pop, missili sulla rampa di lancio, supermen, improbabili triangoli amorosi secondo i cliché del fumetto. In un buffo sfavillio di luci intermittenti e colori consunti, la miniera di immagini che il giovane Barbieri raccoglie e ritrae alla guisa di disarticolati reperti archeologici, ci riportano all’Italia “made in USA” del dopoguerra, nella quale i miti e i sogni dei giovani erano giocosamente riprodotti, nella loro massima essenzialità , in un album di figurine cariche di storia, un immaginario naïf popolato di Beatles, Marilyn Monroe, viaggi interplanetari, “love, peace and flowers”.
Scianna mostra la Bagheria della sua giovinezza come “luogo dell’anima”, “dolce e terribile”, quando affiora in lui una poco consapevole “prima volta” che precede la scelta o meglio l’irresistibile infatuazione per il mestiere di fotografo. Fiero di utilizzare la macchina fotografica come strumento di adulazione delle compagne di scuola, Scianna scopre il prodigio della fotografia che stimola nei suoi compagni una comunicazione ricca di risonanze e stupori, e dai loro ritratti si dilata nelle strade di una Sicilia che non c’è più, ancorata a riti ancestrali tramandati da generazioni che osserviamo con la sorpresa del paleontologo. Le immagini rievocano una terra contadina fatta di vita semplice all’aperto, palesemente povera, mesta per i migranti in partenza verso il nord o appesantita dal lavoro dei campi o nei cantieri. Il sorriso trionfante di una donna che pare danzare con un ramoscello in mano, dei bambini che giocano attorno alla fontana della piazza, lo sguardo sognante di un’adolescente, riscattano ogni sofferenza e aprono il cuore alla speranza di una vita migliore.
RETROSPETTIVA “MAESTRI ESORDIENTI”
Quando Chaplin parlò a Gouverneur “Guvvy” Morris, amico e scrittore, della combinazione tra umorismo e sentimento che aveva in mente per “Il monello” fu stroncato: “Non funzionerà . La forma deve essere pura, o farsa o tragedia, al cinema non puoi mischiarle!”, ma andò avanti per la sua strada pensando che era una novità , che ce l’aveva nel cuore, che si poteva fare, che si doveva fare (”che fosse possibile era una questione di sensibilità e giudizio nella disposizione delle sequenze”).
François Truffaut, che gira con la frusta dei novissimi tra le ragnatele del cinema, nel 1957 scriveva: “il film di domani sarà individuale e autobiografico, il film di domani sarà un atto d’amore”, e due anni dopo gira “I quattrocento colpi”, che oggi è un film di domani di ieri. Per Fellini, ci ricorda Tullio Kezich, “La strada” è il progetto sul quale irrompe la vocazione artistica, e ci vuole tempo per arrivarci, ma nei due anni di gestazione con Flaiano, “Lo sceicco bianco” non è un cimento d’attesa, ma una prova d’orchestra (gli strumenti di Federico) sullo spartito dei miti italiani, tra l’altro, per parlare di musica, già con la colonna di un primo grande incontro: Nino Rota.
Almodovar, immerso in una spudorata energia giovanile della nuova Spagna, aveva in mente un fotoromanzo pornografico per “Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio”, ma scopre che batte un cuor di film, promiscuo e colorato, e lo gira, partendo dalla sua esperienza in super 8 e 16mm., con errori e sgraziature dai quali poi nascerà uno stile. Non sfuggono i limiti scolastici del primo film di Tarkovskij. “Il rullo compressore e il violino” è il suo saggio di regia alla scuola di Mosca. Il primo lungometraggio di Antonioni viene da una scientifica fusione di istinto e ragione (i testi critici e i suoi celebri documentari sulla “visione”), ma se c’è una cosa che “incominciano” nella carriera di Antonioni è il deficit di fiducia commerciale di produttori e distributori (”Cronaca di un amore”), mentre Bellocchio avanza verso il lungometraggio, “I pugni in tasca”, perchè “registi lo si è solo dopo aver girato un film”, e quanto vale questa percezione materiale per Lynch, Resnais o Malick? Per Resnais è un esordio in opposizione al lavoro precedente, dopo i documentari bellissimi, “non volevo girare un documentario sulla bomba atomica”. Per Lynch, un’ostinazione, quattro anni di lavorazione e problemi per vedere se l’amato sistema delle texture funziona anche al cinema (”Erarsehead”). Per Malick, “La rabbia giovane” è un titolo che dice perchè il regista 29enne ha scritto, prodotto e diretto il film.
Non si tratta di individuare gli esordi dei “migliori” o di godere del “c’era già tutto in quel primo film”. I migliori non lo erano ancora, questo è lo sguardo privilegiato dello spettatore di frontiera. Vivevano il rischio delle intuizioni e l’inganno del “potere” dell’esordiente: esisto. E in quei film c’era quello che poteva esserci, non con le manette del veggente di se stessi, ma con la vivace fatica di scoprire chi sei e se stai andando da qualche parte. A questo punto sì, che diventa emozionante prendere in mano le cronologie e le opere, e gettare uno sguardo su tutto quello che è successo “dopo”.
“FRONTIERE – La prima volta”, che si svolgerà dal 21 settembre al 1° ottobre tra i saloni dell’ex Palazzo delle Poste, il Teatro Petruzzelli di Bari, il Cinema ABC e il Multisala Galleria, è una ricerca, un tragitto, un’opportunità di conoscere temi e protagonisti, un passo lungo le frontiere, di là da ogni luogo comune.
“FRONTIERE – La prima volta”, ideata da Oscar Iarussi che la dirige con Silvio Danese e Pier Giorgio Carizzoni, è promossa dalla Regione Puglia e dall’Unione Europea con fondi FESR 2007-2013 riferiti all’Asse IV - Linea d’Intervento 4.3, e organizzata dalla Fondazione Apulia Film Commission, ed è organizzata dalla Fondazione Apulia Film Commission, in collaborazione con l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, il Comune di Bari e la Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari.
INFO su orari e prezzi: www.frontiereweb.it
Con preghiera di partecipazione
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