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Berlin sketches

15 02 12 @ 10:19  silvio.maselli

Veloci impressioni da Berlino 2012:
1. La crisi c’è, forte, densa, bituminosa. E si sente. Meno operatori al mercato, affari a rilento.
2. Berlino è sempre il miglior posto in Europa per fare affari territoriali: grandissimo l’interesse nei nostri confronti, tanta attenzione da parte di produttori stranieri e conferme dagli italiani.
3. La promozione del cinema italiano così non va. Ma come, entri nello stand italiano e non leggi da nessuna parte che, tra iva e tax credit in Italia oggi i produttori stranieri risparmiano sino al 46% di tasse? In Cile fanno meglio, giuro.
4. Nella metropolitana di Berlino non esistono i tornelli: ci si fida. Ma evidentemente se ti beccano senza biglietto ti pelano. Gente seria sti tedeschi.
5. Tristezza Tacheles: una volta il più bel centro sociale e culturale d’Europa. Oggi vi stazionano davanti tre spacciatori (un tedesco, un mediorientale, un afro). E il tanfo di acido urico è drammatica.
6. Una corsa di taxi lunga anche mezzora costa 20 euro o pochissimo più. Alzi la mano e si fermano i taxi. Se liberalizzare le licenze significa questo, allora Mario Monti ha ragione.
7. L’amico dice “beato te, vai a Berlino”. Non sa che ho tenuto circa 12 incontri al giorno, seguito tre conferenze, partecipato a due meeting internazionali, sostenuto trattative molto dure, visto alcuni film. Il lavoro è lavoro. Pure a Berlino, Cannes, LA, Mumbai.
8. Ma la sera, passeggiare per il quartiere ebraico è stupendo. Senti solo i tuoi passi affondare nella neve chiacciata e il rombo lontano di Potsdamer Platz.
9. Diaz - Don’t clean up thi blood è il capolavoro di Daniele Vicari. Storceranno il naso i militanti severi, perché manca il movimento con le sue sacrosante e attualissime ragioni. Ma Daniele non ha voluto rifare l’ennesimo documentario. Ci parla di cos’è il fascismo. E’ un altro cinema.
10. Certezze teutoniche: la navetta gratuita dal Martin Gropius al Marriot, le gambe delle hostess, le arance marocchine nella hall del MGB, Myriam Arab, Filmitalia, il ristorante Gambrinus, la passeggiata al memoriale dell’olocausto e nel Tiergarten, Thierry Baujard, Cine - Regio e Charlotte, Nunnu, gli italiani che stanno sempre tra di loro invece di buttarsi nel mondo concentrato a Berlino. Ma io non mi sento italiano e me ne vado per i giri miei.


“Non chiamarmi Maestro, perché potrei convincermi di non aver più nulla da imparare”

08 02 12 @ 10:42  silvio.maselli

ASIAGO (Vicenza) – Si può cominciare da una denuncia a cambiare il corso delle cose che non cambiano mai? Ermanno Olmi e con lui tanti anonimi cittadini pensano di sì. Vediamo di che cosa si tratta.

L’elenco delle scurrilità e violenze verbali di Umberto Bossi è lungo e ripetitivo. Ma uno degli ultimi episodi, il 30 dicembre ad Albino nella Bergamasca, quando gli insulti, le corna e i “vaff” a Napolitano, al tricolore, a Monti sono finiti nei Tg e su Youtube – dove si possono tuttora vedere – ha messo in moto una reazione a catena di denunce contro il segretario della Lega, per vilipendio, offesa all’onore personale, oltraggio nei confronti del presidente della Repubblica, del Primo ministro, della bandiera nazionale. La moltiplicazione delle denunce alle procure, finora dieci (Verona, Bassano, Vicenza, Trento, Bergamo, Brescia, Milano, Roma, Napoli, Bari) è avvenuta attraverso il passaparola, e-mail, social networks, e grazie alla mobilitazione di gruppi di cittadini che hanno deciso che la misura era colma.

Andiamo a trovare Ermanno Olmi, il regista di Bergamo che vive ad Asiago, l’autore dell’”Albero degli Zoccoli”, un uomo che ha titoli per rappresentare la terra lombarda e padana, compresi i suoi dialetti, e che con il suo cinema ha parlato un linguaggio sottovoce, con molti silenzi, eppure preciso e forte, come sa essere chi tiene in grande considerazione il peso delle parole.

Questa volta Olmi ha deciso di appoggiare il ricorso alla giustizia e di sottoscrivere la denuncia: “Ma non faremo la sfilata delle personalità, semplicemente ci mettiamo in fila come cittadini”. Ha compiuto ottant’anni l’anno scorso quando ha presentato il suo ultimo film, “Il villaggio di cartone”; una chiesa che diventa ricovero per gli immigrati clandestini, un apologo sulla tempesta della globalizzazione che spazza l’Italia, sull’accoglienza e con una morale: “O cambiamo il corso della storia o sarà la storia a cambiare noi”. Il regista ci riceve in ottima forma, malattie e cadute sono solo un ricordo, fuori sull’altipiano il gelo di stagione, dentro il camino acceso.

Perché la denuncia? 
”Non si tratta tanto di fermare la scurrilità: se l’individuo Bossi, per esempio, usasse termini volgari sulla sua persona o per giudicare situazioni degne di insulti, potrebbe essere anche tollerato. Il fatto invece che li usi per denigrare persone che rappresentano dei valori – come quelli insiti nel simbolo della bandiera italiana – esige una ribellione. Insultare ciò che per qualcuno ha valore è una bestemmia. L’atto di denuncia verso Bossi non riguarda la Lega Nord, che essendo stata votata ha diritto di esistere come tutti gli altri partiti, avendo anche al suo interno persone di grande qualità. La politica è una cosa seria e sacra, e comportamenti come questi di Bossi o come quelli di Borghezio e Calderoli con il loro “maiale day” contro la costruzione delle moschee non possono essere tollerati. Maroni ad esempio è una persona seria e, da nonno, gli direi di andare avanti con coraggio sottolineando la differenza che c’è tra lui e coloro che fanno male anche alla Lega”.

Presa di posizione chiarissima, ma in questi anni abbiamo ben visto quanto sia radicato l’involgarimento del linguaggio dei politici, di quelli che dovrebbero rappresentare l’élite. Difficile cambiare il corso di questa storia.
”Quando il fascismo ha sottoposto la popolazione alle architetture e alle parate di regime, solo dodici accademici (rimasti poi in otto) su duemilacinquecento si sono ribellati alla prevaricazione dittatoriale, mentre il resto dei cittadini si lasciava trastullare dalle lusinghe che il potere metteva a disposizione dei cedimenti morali del popolo. Quando s’inventavano slogan offensivi contro coloro che non aderivano a questa stupidità generale con un linguaggio altrettanto stupido, il popolo non se ne accorgeva. “Che Dio stramaledica gli inglesi” era uno degli slogan. C’è gente che siede in parlamento e che per avvalorare una posizione marginale rispetto ai grandi problemi parla della Padania come colonia o delle differenze razziali tra lombardi e veneti. Ci troviamo di fronte ad una realtà talmente stupida che non può durare a lungo. Vista la debolezza concettuale di questi discorsi, si ricorre ad una terminologia spinta. Il cittadino comune, però, che non ha perso l’orientamento nei confronti delle istituzioni, sente che posizioni che spetterebbero ai migliori sono ricoperte da persone che insultano lo Stato e il governo e non lascia che le cose vadano in questo modo. Proprio per questo la denuncia nei confronti dell’individuo Bossi ha riscosso moltissime adesioni. No, non è indignazione generica, è un richiamo al rispetto delle istituzioni e di chi le rappresenta, Napolitano e Monti, da parte degli italiani tutti”.

Bossi non sopporta l’idea che l’Italia si sia riempita per il 150esimo dell’Unità nazionale di bandiere tricolori.
”L’affermazione di Bossi che mi ha creato più sgomento, e da cui provengono tutte le altre, è stata “Io con la bandiera italiana mi pulisco il c.”. Mi piacerebbe ricordare a tutti gli italiani più che a Bossi, che non credo capirebbe il valore delle mie parole, che dietro quella bandiera c’è gente che ha sofferto, che è morta, che ha creduto nella libertà, nella democrazia e nella civiltà. E questo signore non ha nessun diritto di offendere questi morti, che sono nostri parenti e amici, che più di noi si sono esposti. Se si desse a questa bandiera lo stesso valore che si dà ad una bandiera del tifo calcistico, forse la denuncia non avrebbe senso. Ma la bandiera italiana esige rispetto”.

Stiamo formulando dei pensieri che saranno giudicati buoni e giusti, ma forse anche poco realistici. Chi scommette sull’Italia che non cambia di solito in politica vince.
”Ma è realismo quello di chi misura tutte le cose in relazione ai numeri e non al loro valore? Vorrei citare nella galleria dei personaggi che hanno onorato l’Italia Cesare Pavese. Quando i comunisti del dopoguerra lo accusavano di non essere concreto perché parlava di pensieri, rispondeva che non esiste nulla di più concreto dei pensieri. I pensieri sono la capacità dell’uomo di assegnare valore alle cose al di là del loro prezzo e del loro peso fisico”.

Abbiamo visto, da italiani, quanto la politica incoraggi condotte viziose. Il linguaggio di Bossi e quello delle cricche d’affari sono simili.
”E se la politica premia queste cose, io mi ribello. Se penso a una figura come il nostro Presidente mi domando chi, da Einaudi in poi, sia stato alla sua altezza. Hanno ricoperto quella carica brave persone, e anche dei furbi, ma la differenza con Napolitano è netta. Lui ha una qualità spiccata nell’assumersi le responsabilità di un capo di Stato visto e nell’uso delle parole e del pensiero. Nei primi anni dopo la Liberazione, galantuomini come Parri, Lussu, Terracini, De Gasperi avevano la forza di un pensiero che usciva dal dolore della guerra. Certo quei galantuomini e quella politica erano vulnerabili di fronte alla prevaricazione di chi offendeva la libertà e la dignità, di chi avrebbe trasformato la politica in terreno dei furbi, degli opportunisti, delle trame”.

Come ribellarsi a una politica che non vola un millimetro sopra la rappresentanza degli interessi immediati? Per qualunque riforma impegnativa, sembra meglio passare il governo ai tecnici che aspettarsi che la facciano i partiti.
”È una politica che non riesce ad avere un pensiero superiore ai numeri e ai pesi. Eppure De Gasperi era De Gasperi, e Napolitano è Napolitano. Ma il nuovo governo, che è fatto di professori, è politica anch’esso, compie atti politici veri e propri, che hanno ripercussioni sulle persone. I professori agiscono in una situazione di emergenza: in Italia stiamo affondando, non abbiamo le scialuppe di sicurezza e bisogna nuotare tutti, bagnarci i piedi pur di venir fuori dalla crisi. Eppure ci sono ancora persone che si ostinano a cesellare la loro furbizia, ma la furbizia è la più alta forma di stupidità”.

Una denuncia allora può servire per restituire alle parole il loro valore, per educare a un altro linguaggio. Ma la degradazione di questi anni ha delle radici: un linguaggio educato era anche espressione di un ordine sociale che si è disintegrato.
”Esistono alcune immagini di Milano e della periferia di Milano del 1945 dove sembra ancora di vedere cose da “Miserabili” di Victor Hugo: bambini a piedi nudi, vestiti di stracci. Oggi la grande diversità sta nel fatto che la globalizzazione è fatta di tante differenze non compatibili tra loro. Nella civiltà rurale tutti parlavano lo stesso linguaggio, infatti, nella storia dell’umanità, la civiltà rurale è stata l’unica civiltà a poter essere definita compiuta, mentre le altre civiltà, tra cui quella industriale e quella tecnologica, sono state provvisorie e una volta raggiunto il loro apice sono repentinamente crollate. La civiltà rurale, invece, è sempre viva e anche nella apparente differenza di razze – apparente, visto che discendiamo tutti dalla medesima razza, quella nera – ha un minimo comun denominatore che rende le persone simili e capaci di riconoscersi. Quando in Cina hanno visto “L’Albero degli Zoccoli” nessuno ha avuto difficoltà nel comprendere il film. Quel tipo di globalizzazione, rurale, presupponeva elementi utili a riconoscersi reciprocamente e a dialogare. Oggi invece esiste una sovrapposizione di modelli di società non più reciprocamente compatibili. Alla fine dell’Ottocento tra le situazioni vissute nelle campagne italiane e quelle proprie dei villaggi africani non esisteva una grande differenza; infatti in entrambi i casi si viveva di pastorizia e agricoltura. Con l’arrivo della scienza e l’introduzione di nuove realtà industriali si sono create quelle differenze che non permettono più alle persone di riconoscersi”.

Ma anche la realtà industriale aveva una sua uniformità internazionale e una cultura forte della coesione sociale. La grande industria si preoccupava anche di tempo libero, cultura, libri, teatro. Lei ha esordito facendo documentari per la Edison.
”Questo è vero se si fa riferimento ad una determinata area della società. Ma tra la vita di un operaio a Milano e il contadino della Valle Brembana, dopo l’avvento dell’era industriale che ha tolto braccia alle campagne a favore delle fabbriche, è arrivato un momento in cui non esisteva più dialogo. Questa situazione ha acuito anche la differenza esistente tra Nord e Sud, dove al Sud il latifondo è andato avanti fino al dopoguerra. La popolazione che vive nelle periferie delle grandi città oggi non ha più alcun collegamento con coloro che vivono nelle campagne, come invece succedeva prima”.

Stiamo rimpiangendo un passato che non ritorna?
”Non si tratta di nostalgia. Se apprezziamo la genuinità di un pezzo di pane di farina di grano duro o un piatto di pasta al pomodoro preparato con dei veri San Marzano, non si tratta di nostalgia ma di lucida conoscenza della differenza che esiste tra questi prodotti e quelli industriali in scatola, che hanno perso il valore nutrizionale degli originali. Non guardiamo al passato in modo decadente con la voglia di tornare indietro, ma arricchiamo il presente di valori ormai dispersi. Oggi non esistono più i veri contadini, sono stati sostituiti da operai che lavorano la terra con modelli industriali”.

Parliamo di ribellione alla degenerazione della vita politica e del suo linguaggio. Ma la educazione politica ha bisogno di basi materiali nella società. La solidarietà sociale poteva prosperare nella società agricola e in quella industriale. Nella società frammentata di oggi ha vita stentata.
”La condizione quasi perfettamente ideale di solidarietà è esistita nel dopoguerra visto che bisognava ricostruire e rimettere in moto la macchina del paese. Appena questi ingranaggi hanno prodotto ricchezza, che ci ha concesso di vivere non sull’orlo della miseria, abbiamo sottoscritto un progetto di arricchimento senza limiti e siamo arrivati a vivere in condizioni fasulle, credendoci ricchi e giocando su un’economia del rinvio senza presentare un rendiconto di fine anno, il che ci ha fatto accumulare uno spaventoso debito pubblico. La disonestà non consiste solo nel rubare ciò che appartiene a un altro, ma anche nell’ingannare gli altri con le bugie e noi siamo stati ingannati. E, attenzione, lo siamo ancora adesso, quando lasciamo dire che bisogna far ripartire i consumi per la crescita, mentre bisognerebbe ridurli entrambi per essere realisti e uscire dall’inganno. Il programma di questo governo che cerca un salvagente per tenerci a galla non è abbastanza realistico: visto che la nave sta affondando, per salvarci di certo non bastano solo i salvagente, bisognerebbe tornare a zappare la terra”.

La Milano dei suoi film degli anni Sessanta, “Il posto”, “I fidanzati” era un emblema del ritmo della città industriale, scandito dalle enormi fabbriche, dai tram strapieni nell’ora di punta, da fiumi di tute blu e colletti bianchi. Sembrava un ordine permanente e si è rivelato transitorio e breve.
”E dobbiamo adeguarci: l’ordine morale deve modificare l’idea che abbiamo delle basi materiali. Non si può più pensare di avere più automobili e televisori per famiglia. Abbiamo vissuto l’idea della ricchezza ignorandone il fondo. Il boom economico dell’Italia alla fine degli anni ’40 e con l’anno Santo del 1950 era caratterizzato dalle biciclette, dalle Lambrette, poi dalle Fiat 500, ma nel 1953 iniziò a circolare la parola “congiuntura” che secondo gli economisti comportava una momentanea pausa a questo travolgente momento di ricchezza. Era invece un segnale che non abbiamo ascoltato. Nel Villaggio di cartone l’ho detto: “O siamo noi a cambiare il corso della storia o sarà lei a cambiare noi”. E in questo momento si sta verificando la seconda ipotesi, il che porta con sé dei veri e propri Tsunami”.

La società contadina aveva le sue sicurezze, quella industriale poteva contare sul welfare. Ora siamo esposti ai rischi della globalizzazione e della frammentazione.
”La sicurezza del sistema industriale è fallita mentre quella della civiltà rurale esiste ancora. Noi possediamo pensioni, assicurazioni private e di categoria, ma neanche più quelle sono in grado di rassicurarci. Dopo la fine dei latifondi in alcuni contesti del mondo rurale esistevano “società dei probi contadini” che garantivano per i soci in difficoltà, condividendone i problemi e le disgrazie agendo sempre sulla base della fiducia. Se un contadino perdeva la vacca si faceva una colletta per sostenerlo. Oggi potremmo fare una società dei probi condomini?”.

Difficile obiettivo, ma qualcosa ci resta da fare.
”Oggi si può mettere in atto una nuova idea di convivenza che abbia alla base un progetto. La politica, invece, non parla mai di progetti concreti, vivendo di icone ideologiche poco concrete. Il governo attuale è stato costretto a dare risposte concrete provocando l’ira di coloro che non accettano l’idea di non aver pensato prima al fatto che eravamo poveri”.

Dove stanno le voci capaci di annunciare la dura verità e l’ardua impresa che ci aspetta? Politici nuovi? Talenti d’artista?
”Se emergesse qualcuno a guidare le coscienze altrui sarebbero guai per tutti. Ognuno di noi fa grande fatica a guidare la propria e ad ammettere le proprie debolezze. L’agire con superficialità ci ha portato alle soglie di una difficile scelta di cambiamento. Dobbiamo guidare le nostre coscienze e dobbiamo avere la consapevolezza che in passato abbiamo creduto nella ricchezza come risolutrice di tutti i problemi. C’è un solo comandamento da rispettare in questa situazione: cambiare vita e con il pensiero e con le parole dare un nuovo valore alle cose”.

Fonte: http://www.caffeeuropa.it/index.php?id=1%2C668


Prove di nuova tv

08 02 12 @ 10:06  silvio.maselli

Non mi fa impazzire la nuova trasmissione della Dandini, tuttavia bisogna ammettere che sta provando linguaggi inconsueti per il sabato sera, giorno della settimana in cui rimangono a casa davvero pochissimi giovani del target significativo per la pubblicità (24 - 64 anni). E allora ha ragione la Dandini a spiegarci che la trasmissione fa il 3/4% di share, ma spopola su you tube. E’ la conferma di un lavoro sotto traccia, come quello che lei e il suo clan creativo han sempre fatto e le va riconosciuto.

Di altro basso spessore la signora De Filippi che prende in prestito un format americano che, per chi ha Sky, esiste da tempo, lo rimpolpa di mariadefilippismo italico e lo riciccia ad un pubblico giovanissimo e tipicamente ancorato a stilemi, gusti ed estetica made in Mediaset. Nessuna novità, nessuna invenzione, solo scivolar di corpi sul velluto.

Meglio tacere sulla Milly Carlucci, invece, che punta al target imbolsito di Rai Uno. Un evergreen cui sono quasi certo, mio figlio non assisterà mai, perché tra dieci anni la tv generalista sarà morta. Oppure no? Ah, qui ci potrebbero venire in soccorso gli studiosi come Zaccone o Zambardino.

Z&Z, fuoriclasse dell’analisi mediologica, ci aiutate voi a capire che mondo vivremo tra dieci anni o più?!

Fonte: http://www.kataweb.it/tvzap/2012/02/08/serena-dandini-ma-quale-flop-io-non-sono-nazionalpopolare-377896/?ref=HRESS-21

Serena Dandini: “Ma quale flop io non sono nazionalpopolare”
di LEANDRO PALESTINI
La 7, in calo gli spettatori per lo show del sabato sera. Non decolla “The show must go off” per l´ultima puntata solo 860mila spettatori

ROMA – Il gelido inverno sta frenando l´ascesa del terzo polo televisivo. Corrado Formigli non decolla con Piazzapulita (4.15% di share), Gianluigi Nuzzi nonostante le sue inchieste è fermo al 3.35%, Le invasioni barbariche di Daria Bignardi superano di poco il milione di fan (4.53% di share). Paolo Ruffini è in una posizione scomoda: da pochi mesi alla direzione di rete, in attesa dei suoi nuovi programmi (dal Sabina Guzzanti Show a marzo agli speciali della coppia Saviano-Fazio a maggio). Ed è allarme rosso per gli ascolti di Serena Dandini: il suo The show must go off, partito con il 5.69% di share, alla terza puntata ha richiamato 860mila telespettatori, raccogliendo un misero 3.38% di share. In attesa di una scossa d´orgoglio nella quarta puntata (”sabato prossimo avremo ospiti Annie Lennox e Caparezza” dice la conduttrice), c´è chi pensa a un trasloco dello show in altra fascia oraria, magari nella nicchia della seconda serata. Ma ufficialmente, a La 7 i vertici dicono che il programma (salvo diverso ordine) andrà avanti fino a tutto maggio.
Dandini, non giriamoci intorno, il suo programma piace ad appena 860 mila telespettatori: in tv questo è un “flop”…
”Per me non è un flop. E non sono delusa, perché la mia sfida è in corso, non è detta l´ultima parola. Illuminare il sabato sera a La7 è come far luce in una caverna: lì finora c´era il nulla, l´uno per cento degli ascolti. Io faccio il 3-4% degli ascolti del sabato sera, gli spettatori sono pochi, ma la rete mi sostiene. Non è la prima serata di RaiUno, non si può avere tutto e subito”.
”The show must go off” è un format che non convince. Farà delle modifiche per competere con De Filippi e Milly Carlucci?
”Contro il successo di Italia´s got talent possiamo ben poco. Voi dite che abbiamo fatto “flop”, in verità stiamo aprendo una nuova strada. La mia risposta è: non faremo modifiche per inseguire gli show nazionalpopolari del sabato sera. The show must go off ci piace così, è pieno di cose nuove, originali, ci vuole tempo per far arrivare il pubblico. Ma se girate su Youtube vedrete quante cose nostre circolano. Noi abbiamo un pubblico abbastanza giovane, puntiamo su attori e linguaggi nuovi: insieme ai classici Marcorè e Paiella, abbiamo gli spot dei Serissimi, l´attore precario Luca Di Giovanni, Margherita Vicario, sulla rete già impazza la fiction dei 456. Posso ricordare il titolo? “La famiglia di Nonna Merda”…”.
Va bene Youtube, ma se continua il calo degli ascolti lei rischia di chiudere bottega…
”Beh, a me piace fare la pioniera: è la mia vocazione da vent´anni, dai tempi della Tv delle ragazze. Il direttore Ruffini mi ha assicurato che non chiuderemo, per ora non si parla neppure di trasloco in altra fascia oraria. Certo, sono disposta a parlarne con l´azienda, ma per tigna ora restiamo di sabato sera. Noi lottiamo per crescere in ascolti. L´amministratore delegato Stella finora contento per la pubblicità che portiamo”.
Il pubblico fugge perché siete passati dalla mezz´ora di “Parla con me” alle 2-3 ore di “The show must go off”?
”Basta con questa storia degli ascolti: io ho tigna, non mi sento sconfitta. Non è un mistero per nessuno che su La 7 c´è un problema di visibilità. Ci vuole tempo per vedere il terzo polo televisivo, io ho fatto una scommessa da kamikaze. Ma prometto, per alzare gli ascolti non inviterò mai attrici porno, Vergassola non le intervisterà, non mostrerò spezzoni di film hard”.
Rimpiange la Rai? Non crede che il titolo “Lo spettacolo si deve fermare” le porti sfortuna…
”A me dispiace che il servizio pubblico abbia buttato via lo spazio che avevamo costruito, con un pubblico stabile, un buon traino per il Tg3-Linea Notte. Certo, per me era perfetto andare in onda il martedì sera, dopo Ballarò. Il titolo infelice? È un omaggio ai Queen, e a me piace il rischio: se passa un gatto nero è la volta buona che attraverso la strada”.


Ma che adavero?

06 02 12 @ 01:13  silvio.maselli

Leggo e condivido:

Purtroppo tutto come previsto. Basta collegarsi al sito della ministeriale Direzione cinema per scoprire come stanno agendo le famose commissioni cinema nominate dall’ex ministro Giancarlo Galan un attimo prima di andarsene dai Beni culturali. Cioè male. A novembre i lettori del “Secolo XIX” sono stati i primi ad essere informati della bizzarra composizione di quei consessi di “esperti” che amministrano, solo alla voce produzione di film di qualità, tra i 18 e i 25 milioni di euro all’anno.
Perché bizzarra? Perché vi figurano - ricorderete - mogli celebri, tutte di area Pdl: come Antonia Postorivo, consorte del barone Antonio D’Alì Solina, attuale presidente della commissione Ambiente del Senato; come Valeria Licastro Scardino, che fu segretaria particolare di Fedele Confalonieri negli anni Novanta e oggi consorte dell’ex deputato Antonio Martusciello nonché commissario Agcom; come Anselma Dell’Olio, consorte di Giuliano Ferrara, ma almeno lei si occupa di cinema. Per non dire degli altri, pescati perlopiù tra amici e conoscenti, quasi una succursale della trasmissione “Cinematografo” di Gigi Marzullo.
Il neoministro Lorenzo Ornaghi avrebbe potuto, anzi dovuto, azzerare tutto. Purtroppo non l’ha fatto. Perché? Il risultato s’è subito visto. Soldi perlopiù ai soliti noti, con la scusa dei meccanismi automatici legati alla riforma che fece l’allora ministro Urbani, detta reference-system, in base alla quale contano molto i punteggi, cioè la forza produttiva di chi presenta il progetto, e poco, in percentuale, la qualità del copione e della storia.
Ecco qualche esempio. Senza nulla togliere al prestigio dei cineasti coinvolti, c’era proprio bisogno di concedere contributi per 800 mila euro a “Educazione siberiana” di Gabriele Salvatores, 700 mila a “Venuto al mondo” di Sergio Castellitto, 650 mila a “Posti in piedi in Paradiso” di Carlo Verdone? Il primo, targato Cattleya per un costo di 11 milioni di euro, è girato in inglese e sfodera John Malkovich nel cast; il secondo, targato Medusa per un costo di oltre 13, è interpretato da due nomi internazionali come Penélope Cruz e Emile Hirsch; il terzo, targato De Laurentiis per un costo di quasi 8 milioni, è una commedia, appunto, di e con Verdone. C’è da ringraziare, a questo punto, i produttori della Wildside: per “Io e te” di Bernardo Bertolucci hanno chiesto solo il riconoscimento di interesse culturale nazionale, ovvero il pallino verde senza esborso di soldi. Idem per “Benvenuti al Nord” e “Immaturi - Il viaggio”.
Poi, però, a scorrere la tabella verso il basso scopri che titoli sulla carta di qualità, certo meritevoli di aiuto ben più dei big sopracitati, non hanno trovato accoglienza perché “non rientrano nelle risorse disponibili per la seduta” dello scorso 22 dicembre, cioè all’incirca 3 milioni e mezzo di euro. Cassati quindi “Nessuno mi pettina bene come il vento” di Peter Del Monte, “Vino dentro” di Ferdinando Vicentini Orgnani o “Sunday O.
L’uomo dei tamburi” di Alex Infascelli: tre autori non proprio inconsistenti, anche se magari i loro film precedenti non hanno fatto sfracelli al botteghino. Ma se l’unico criterio fosse quello degli incassi perché mai il ministero ai Beni culturali dovrebbe co-finanziare film più rischiosi, meno in sintonia con i gusti correnti? In fondo senza il sostegno pubblico film come “Il Divo”, “Gomorra” o “L’uomo che verrà” non si sarebbero potuti fare.
Perplessità vengono anche dalle iniziali scelte compiute sul fronte delle opere prime e seconde. Alessandro Gassman è certo attore eclettico e ben ammanicato, corteggiato dalla pubblicità, pure direttore di un Teatro stabile oltre che da poco “Iena” televisiva. Magari i 200 mila euro dati al suo “Roman e il suo cucciolo” potevano essere dirottati su chi ha più bisogno di aiuto.
Proprio martedì, su queste pagine, abbiamo rivelato la brutta storia della triplice bocciatura ricevuta, tra il 2007 e il 2009, dal più che onorevole esordio “Sulla strada di casa” di Emiliano Corapi, nonostante la presenza di attori come Vinicio Marchioni, Claudia Pandolfi, Daniele Liotti, Donatella Finocchiaro. Due pesi due misure? Sviste ministeriali? Sponsor poco introdotti presso la commissione di allora, suppergiù la stessa di adesso? Vai a sapere.
Naturalmente, lavorando i commissari su copioni e non su film già girati, l’errore è sempre in agguato. La sottovalutazione anche. Ma proprio per questo bisognerebbe agire con saggezza, sapendo che certi film ultra-garantiti sul piano produttivo e distributivo, tipo appunti quelli di Salvatores, Castellitto e Verdone, non meritano un ulteriore sostegno pubblico. Tanto più, a essere onesti, quel “Marco d’Aviano” di Renzo Martinelli, regista di fede leghista, al quale la precedente commissione, di nuovo in buona misura composta dagli stessi “esperti”, ha offerto addirittura 1 milione di euro, da sommare ai 4 già ricevuti da Raifiction.
Non sorprende, a questo punto, che l’associazione dei 100 Autori sia insorta contro le suddette delibere ministeriali. “Sono queste le scelte che lo Stato deve fare? Anticipare i soldi a imprenditori privati che non ne hanno bisogno? Benvenuto De Laurentiis nel club degli industriali più assistiti d’Italia, non bastavano i milioni di euro sugli incassi” ironizza il regista Maurizio Sciarra, riferendosi ai cosiddetti ristorni, i contributi sui biglietti venduti elargiti dallo Stato ancora con immotivata generosità, nonostante la promessa di riequilibrare i parametri al ribasso.
Lo stesso Verdone s’è detto perplesso di fronte alla richiesta del suo produttore. De Laurentiis, il tycoon puro che detesta la burocrazia e ricorda a ogni piè sospinto di investire soldi propri nel cinema, aveva chiesto ai Beni culturali addirittura 2 milioni e mezzo per “Posti in piedi in Paradiso”. Dopo averne ricevuti già 400 mila per “Amici miei… come tutto ebbe inizio” e altri 400 mila per “Manuale d’amore 3″. “Capisco le ragioni dei 100 Autori, è anche una questione di buon senso. Bisogna aiutare i film più difficili e coraggiosi. Se fossi stato io a decidere, per come mi conosco, non avrei chiesto soldi allo Stato” ha spiegato schiettamente al collega Pedro Armocida del “Giornale”.
C’è da augurarsi, a questo punto, che al ministero varino in fretta, come pure auspica il direttore generale per il cinema Nicola Borrelli, nuovi decreti in materia di finanziamenti pubblici al cinema, in modo da favorire non solo i più forti e potenti. Già, a causa della crisi, le risorse a disposizione sono poche: nel 2011 appena 18 milioni, di cui 10,5 per i lungometraggi di interesse culturale nazionale, 7,5 per le opere prime e seconde. Facciamo in modo, d’ora in poi, almeno di spenderli bene.

Fonte: http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/un-film-gi-visto-le-commissioni-per-il-cinema-zeppe-di-mogli-celebri-del-35108.htm


31,64285714

02 02 12 @ 12:27  silvio.maselli

31,64285714
E’ l’età media dello staff della Apulia film commission.
Anticiclico rispetto al Paese.
s.


Quando

01 02 12 @ 12:42  silvio.maselli

Quando si dice “globalizzazione”, non si può intendere “occidentalizzazione”.
Quel tempo è finito. Per sempre.
Basta guardare al mercato audiovisivo indiano per capirlo. Una volta per tutte.


I numeri del theatrical

01 02 12 @ 11:32  silvio.maselli

Ricevo un bel progetto da parte dei 100Autori, anche se noi da tempo con D’Autore siamo avanti sul piano della tutela del diritto inalienabile degli spettatori di fruire cinema di qualità.
Ecco alcuni numeri rielaborati su fonti Cinetel, riguardanti il mercato della sala in Italia.
Pleonastico ogni commento.

DETTAGLIO DATI SULLE SALE NEL 2011:
(fonte: Cinetel)

Incassi per tipologia di sala cinematografica

- le monosale hanno ca. il 16% degli schermi totali ma incassano l’8%;
- le multisale di città (tra i 2 e i 4 schermi) hanno il 26% degli schermi e incassano ca. il 18%;
- cineplex (tra i 5 e i 7 schermi) hanno il 17% degli schermi e il 17% degli incassi;
- multiplex (più di 7 schermi) hanno il 40% degli schermi e incassano il 55%.

Percentuali cinema italiano, per tipologia di sala

- nelle monosale il 50% delle presenze e degli incassi è per il cinema italiano;
- nelle multisale di città è al 42% delle presenze e il 38% degli incassi ca.;
- nei cineplex il cinema italiano è al 37% delle presenze e al 34% degli incassi ca.
- nei multiplex il cinema italiano è al 32% delle presenze e degli incassi ca.

Concentrazioni esercizio

UCI ha 428 schermi, THE SPACE ne ha 347 (dato Autorità garante della concorrenza e del mercato, 21 dicembre 2011). Questi due gruppi in totale controllano 775 schermi, cioè il 42% dei multiplex dai 5 schermi in su.

Poiché questa tipologia di multiplex totalizza il 73,5% di tutti gli incassi sala in Italia, in realtà questi due gruppi raggiungono una quota largamente superiore al 50% del mercato.


Le domande di Arcopinto

01 02 12 @ 10:49  silvio.maselli

Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/31/alcune-domande-cinema-italiano/187934/

Adesso che finalmente il cinema italiano si è ripreso la testa della classifica grazie a Benvenuti al nord, che tiene a doverosa distanza Immaturi. Il viaggio, ma che comunque insieme, i due, fanno a pezzi i cinepanettoni; adesso che finalmente è arrivato Acab, l’opera prima sorprendente, perché incassa pur non essendo una commedia e dividendo gli spettatori, che abbandonano la sala delusi prima della fine del film o che rimangono fino ai titoli di coda gridando al grande film di caratura internazionale; adesso che purtroppo, non so per quale anno consecutivo, mi pare sette, il cinema italiano si ritrova, sorpreso, escluso dalla competizione dell’Oscar al miglior film straniero; adesso che il cinema italiano può dirsi onorato della presidenza della giuria di Cannes affidata al maestro Moretti; adesso, proprio adesso, in questa grigia mattina che promette pioggia, a me viene voglia di fare delle domande al cinema italiano.

Ma tu, che hai gridato compatto al capolavoro, il progetto di un film come The artist, in bianco e nero e muto, lo avresti mai preso in considerazione? O non ne avresti forse sbeffeggiato gli autori?

Perché nessuno dei tuoi ha sottolineato quanto siano devastanti le ultime decisioni delle commissioni ministeriali che, tornando a elargizioni a pioggia con i pochi spiccioli rimasti, di fatto impedirà la realizzazione di gran parte dei film finanziati o li costringerà a farli sulla pelle di chi lavora, senza però creare tornaconto a nessuno, tanto meno a se stesso? E che senso ha avuto stanziare duecentomila euro per Acab, che si sapeva – soprattutto per l’abilità, questa indiscutibile, nel costruire l’operazione – ne avrebbe potuto fare tranquillamente a meno?

E non ti vergogni del balletto sulla direzione del Festival di Roma a cui ci stai facendo assistere? Quale credibilità, ammesso ne abbia mai avuta una, conserverà quel festival, chiunque lo vada a dirigere?

E sei così sicuro che per concorrere all’Oscar siano sufficienti un tema forte e cinque indimenticabili inquadrature? E di contro, ma sei così sicuro che tu ti debba confrontare con l’Oscar quale fosse veramente il riconoscimento a cui tendere in maniera assoluta?

E il maestro Moretti, non era quello da cui comunque tenere sempre un po’ le distanze?

E non ti senti un po’ responsabile del fatto che forse è vero che oggi in Italia non siamo più in grado di fare The artist, o Miracolo a Le Havre, o Le nevi del Kilimangiaro? Ma non è forse colpa tua che hai relegato i potenziali autori di film come questi a stare fermi per anni o a essere inseriti in un mercato ghetto per poco più di ventimila spettatori quando dice benissimo, sparando in primo piano registi strateghi della comunicazione, che costruiscono prima delle operazioni commerciali e poi, se avanza, forse anche dei film?

Nel calcio quest’anno in serie A hanno esonerato dodici allenatori e non credo proprio finisca qui: ma perché tu, tra i tuoi che gestiscono il potere, non mandi mai a casa chi sbaglia o chi è incapace? Perché i cambiamenti sono sempre e solo dettati dai giochi di partito?

Perché io oggi pomeriggio devo andare a fare lezione nella scuola per eccellenza, il Centro Sperimentale di Cinematografia, e trovare la metà degli allievi a digerire il pranzo bighellonando nei corridoi senza sapere cosa fare? Perché non hai mai voluto capire quanto sarebbe importante quel posto?

A questo punto tu sei legittimato a chiedermi: ma tu che vuoi?

Io voglio che i miei allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia, con i loro compagni, con chi ci crede, con chi vuole ancora sognare, si rimbocchino le maniche e ricostruiscano sulle tue macerie, nella piena consapevolezza di quello che hai combinato. E’ l’unica cosa che mi interessa, è l’unico motivo per cui continuo a combattere.


Il talento è intelligenza.

31 01 12 @ 11:40  silvio.maselli

La parabola artistica del “nostro” Riccardo Scamarcio è motivo di orgoglio per noi tutti, che lo seguiamo da tempo e lo abbiamo per amico.
Il suo successo è la conferma che il talento è servito dall’intelligenza, oppure non è.
Con l’augurio di ogni bene, Riccardo.

“Riccardo Scamarcio non è più per nessuno lo Step di Moccia con cui aveva conquistato il cuore delle ragazzine. Ormai è il Romeo di Valerio Binasco con cui è tornato in scena, per la seconda stagione: prima in Sicilia, poi a Roma, infine a Milano. E grazie a Romeo non è più soltanto il bello del cinema italiano ma anche uno dei bravi, consacrato non solo dall’Ubu arrivato allo spettacolo, ma anche da un premio Recanati a lui medesimo che però, non avendolo ritirato, pare non gli verrà consegnato mai più. Romeo e Giulietta ha spinto perfino i sofisticati critici teatrali, malgrado il pregiudizio duro a morire che vuole il bello per forza un po’ scemo, ad ammettere che Scamarcio ha offerto una interpretazione intelligente: “La dovevo ai tanti giovani che sono venuti a vedermi - dice l’attore -. Bello. Bello. Bello. Bello esserci. Al “Biondo” di Palermo, le tre ore e passa di Shakespeare, sono state salutate con un entusiasmo da concerto rock. Grande soddisfazione”. Farà ancora teatro? “Non lo so. Il set e il palcoscenico hanno tempi non conciliabili”. Col teatro però un attore non bara, col cinema può farlo. “Mica tanto. Vero che sono linguaggi diversi, che l’attore sul palcoscenico gode della massima evidenza. Ma se uno è un cane, anche sul set si vede”.

Tra un Romeo e l’altro, comunque, Riccardo Scamarcio non si è fermato. Tutt’altro. Ha partecipato in piccoli ruoli di contorno a tre film stranieri: l’americano Nero fiddled di Woody Allen in un ruolo che è il più buffo della sua carriera; il francese e duro Polisse di Maiwenn Le Besco, documento tostissimo sulla pedofilia che sta per uscire da noi dopo aver fatto sfracelli in Francia; Effie di Lexton con Emma Thompson, racconto della relazione platonica tra il celebre critico d’arte John Ruskin e l’adolescente Effie Gray nel quale lui è un giovane seduttore veneziano figlio dell’aristocratica Claudia Cardinale.

Serve a farsi conoscere accettare piccoli ruoli in film non italiani? “Viviamo in Europa e i nostri politici ci dicono che l’Europa è una realtà - spiega Scamarcio -. Veramente l’Europa è un piccolo fazzoletto formato da tante culture forti, diverse e antiche, abituate, però, da secoli a convivere. Forse un domani sarà perfino una realtà. Per ora sto imparando l’inglese e il francese. Sto sperimentando altri stili di regia. Gli inglesi sono assai divertenti. Vorrei provare a comportarmida europeo”.

Se proprio all’estero Scamarcio dovrebbe lavorare nei prossimi mesi, intanto in Italia ha girato due film da protagonista: Il rosso e il blu di Piccioni con Margherita Buy, storia d’ambiente scolastico dove fa un supplente alle prese con una classe difficile e Cosimo e Nicole del semi-sconosciuto Francesco Amato, appena finito, storia di due ragazzi chiusi in una bolla d’amore che si romperà dopo l’impatto con il lavoro, la stabilità e i fatti del G8 di Genova. Ma come sceglie i film da fare? “Leggo e se è possibile mi sottopongo a un provino. È l’ideale per capire se sono adatto al ruolo. Se c’è un bel copione, poi, mi fa piacere lavorare con chi sta affacciandosi al mestiere come Francesco Amato. Non negarsi agli esperimenti è una necessità per chi vuol crescere e migliorare. Nella professione come nella vita”.

Inevitabile con Scamarcio passare dal cinema alla politica, perché, prima che attore, Scamarcio si sente cittadino,un cittadino vagamente antagonista e molto informato. E come tale giudica, riflette, apprezza, critica, sceglie. Anche cosa interpretare e cosa no. “In pugliese si dice “mi può” per dire mi contiene, mi appartiene, mi fa star bene. Io sono un iper-attivo e il set “mi può”. Ma sono pure un cittadino e “mi può” la politica. Molte cose non mi convincono”. Ce l’ha con i professori? “No, loro pensano a mettere rattoppi, senza guardare alla crisi del nostro modello di sviluppo dell’Occidente. Ce l’ho con i tagli ai treni che vanno al Sud, in Calabria, in Sicilia. Sono pezzi d’Italia. Voglio proprio vedere quale sarà il privato che ripristinerà quelle linee! Tocca allo Stato esserci dove serve. Lo dice perfino Obama, presidente del paese che è il paradiso del capitalismo più classico. Servono regole nuove”. Proprio lei che non ha sopportato quelle della scuola, invoca le regole… “Con l’età ho imparato che servono. Le regole vanno conosciute e rispettate quando si deve e infrante quando si può. Nell’arte sicuramente. Ma, credo, perfino nei destini di una società”.
”

Fonte: http://www3.lastampa.it/cinematv/sezioni/news/articolo/lstp/440408/


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