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Ho ascoltato con le mie orecchie un signore di nome Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per reati di associazione mafiosa, dire che il suo personale eroe è il sig. Vittorio Mangano, riconosciuto mafioso, perché non ha parlato nei processi precedenti di lui, quando pure avrebbe potuto.
Mi sono venuti immediatamente alla memoria gli anni della formazione della mia generazione. E non ho dubbi alcuni: il mio eroe personale si chiama Giovanni Falcone. Altro che.
Ma la mia generazione sarà mai in grado di spazzare via questa classe dirigente di laidi farabutti?
Ho dormito quattro notti in Cina. A Shangai. E’ stata una bella esperienza, sia pur molto breve.
Ho visto una città enorme, oltre venti milioni di abitanti. Il cielo è grigio e piovoso, di una pioggia sottilissima, che dilava i grattacieli e porta a terra lo smog incessante, di milioni di macchine e motori che girano vorticosi nel delirio urbano di incroci canalizzati.
Ho visto una metropolitana moderna, con poster all’ingresso che spiegano come non farsi prendere dal panico quando arriva l’ora di punta. E ho visto le solite due giovani guardie che scrutano chi entra ed esce dai tunnel della metro, pronti però a sorriderci o a dare spiegazioni, nel loro più che precario inglese.
Ho visto le opportunità e le minacce. Le opportunità che colgono i tedeschi, visto che tutti i taxi e la gran parte della auto di fascia media sono Wolksvagen, mica male come commessa. Ed ho visto un popolo di contadini che si trova in città , sputare bellamente per terra, grattando forte la gola incuranti dello sguardo contratto dell’occidentale di fronte a loro.
Ho visto le BMW serie M e la povertà assoluta. Le tavolette del bagno elettroniche e riscaldate con tanto di bidet incorporato, e quattro baracche fumiganti di odori insalubri di una rete fognaria che non ce la fa a smaltire tutto quel che deve.
Ho visto i pieni e i vuoti di una pianificazione urbana senza un vero senso compiuto: giardini storici incastonati tra grattacieli che svettano in una sfida titanica e gigantista.
Su dieci persone viste per strada, nove sono giovani ventenni, anche la mattina e nel loro brulicare, ho udito l’ossessione del clacson sempre pronto a suonare.
Ho vist la censura: che ti impedisce di andare su facebook o che rallenta orrendamente google. E ho visto la loro CCTV, in inglese, quasi meglio della nostra vecchia rai uno. Più moderna, voglio dire.
Ho sentito i cineasti parlare di censura e i giovani e i vecchi essere un po’ precisi e intruppati. Ma d’altra parte si può gestire diversamente unmiliardotrecentomilioni di persone? Questa è la domanda delle domande.
Ho visto i vecchi stabilimenti industriali trasformati in gallerie artistiche (M35) o piccoli quartierini dedicati all’artigianato di qualità (parola non sempre in disuso da quelle parti). Ce ne fossero da noi qui…
Ho visto le rane vive al mercato, le galline vendute vive e ammazzate lì, davanti all’avventore. Come le tartarughe, nuotare disperate nelle vaschette in attesa di essere bollite. E come le uova con i pulcini, vendute a mò di dumpling, in tegamoni enormi con ambigui liquidi marroni di feti in ribollitura. E ho visto la faccia del maiale scorticata dalle ossa e messa sottovuoto, in una busta trasparente.
Ho visto le cinesi, alcune bellissime, tiratissime e molto alla moda. E ho visto sorridermi tutti, rispondendo ad uno sguardo garbato, di turista che rispetta e comprende che il più grande valore del mondo nuovo è il relativismo etico, fermi restando alcuni principi universali, per fortuna già stabiliti e discussi il 10 dicembre del 1948.
Ho visto ovunque cartoni, vera ossessione cinese, con scritto “made in china - PPR” e vendere dappertutto qualunque cosa, quelle belle (poche) e quelle inutili (la più parte). Ho visto vendere e non sono sicuro di aver visto comprare.
Ho visto cos’è una igiene scarsa al ristorante, ma sono vivo e posso ancora raccontare, dunque che c’è di male se il cuoco ha la tunica sporchissima o la ‘food and drug administration’ di shangai dà il bollino giallo al ristorante dove ho mangiato un giorno?
Ho udito succhiare i noodles come bambini, da manager impomatati.
Ho parlato con i cinesi fuori dal giardino di Yu o con un bangladese che mi ha invitato a visitare il suo paese quanto prima, suo ospite magari.
Ho visto perché Milano non ce la farà mai ad essere all’altezza di Shangai con il suo Expo. Quattrocentomila cinesi al giorno per sei mesi fanno 72 milioni di visitatori, più del doppio della popolazione attiva italiana. Ho visto la gioia di scrivere il tempo presente.
Ho visto i giornalisti cinesi, il loro volto attento, ascoltare me o il nostro Presidente, sapere le cose, essere preparati e veramente curiosi. E non chiedere dei fatti privati o del gossip, ma di idee e fatti e basta.
Ho visto la passione e l’interesse per il nostro cinema dei cineasti cinesi e dei loro produttori e, forse, due di loro, verranno qui a conoscerci per girare un film. Chissà . Il seme è riposto nel terreno, crescerà .
Ho visto il mondo nuovo, mi sento già vecchio.
Uno deci concetti che mi affascinavano di più, nello studio della sociologia generale, è quello di anomia sociale.
A me pare che questo sia l’aspetto più rilevante dell’ultimo ventennio italiano: i luoghi sono incapaci di facilitare le relazioni sociali e l’urbanistica di sinistra degli anni ‘70 ci sta facendo pagare prezzi altissimi, nella sua declinazione del governo di destra.
Si veda, per esempio, la sciagurata, ma politicamente efficacissima, scelta di costruire una famigerata “new town” a L’Aquila, piuttosto che mettere in sicurezza il centro storico. Lo racconta un bel film di Sabina Guzzanti (il suo migliore, senza dubbio) il cui titolo è “Draquila”.
E lo racconta questa email che mi ha imbarazzato leggere stamattina:
“Ieri mi ha telefonato l’impiegata di una società di recupero crediti, per conto di Sky.
Mi dice che risulto morosa dal mese di settembre del 2009. Mi chiede come mai.
Le dico che dal 4 aprile dello scorso anno ho lasciato la mia casa e non vi ho più fatto ritorno.
Causa terremoto. Il decoder sky giace schiacciato sotto il peso di una parete crollata.
Ammutolisce.
Quindi si scusa e mi dice che farà presente quanto le ho detto a chi di dovere.
Poi, premurosa, mi chiede se ora, dopo un anno, è tutto a posto.
Mi dice di amare la mia città , ha avuto la fortuna di visitarla un paio di anni fa.
Ne è rimasta affascinata. Ricorda in particolare una scalinata in selci che scendeva dal Duomo verso la basilica di Collemaggio.
E mi sale il groppo alla gola. Le dico che abitavo proprio lì.
Lei ammutolisce di nuovo. Poi mi invita a raccontarle cosa è la mia città oggi.
Ed io lo faccio.
Le racconto del centro militarizzato.
Le racconto che non posso andare a casa mia quando voglio. Le racconto che, però, i ladri ci vanno indisturbati.
Le racconto dei palazzi lasciati lì a morire.
Le racconto dei soldi che non ci sono, per ricostruire. E che non ci sono neanche per aiutare noi a sopravvivere.
Le racconto che, dal primo luglio, torneremo a pagare le tasse ed i contributi, anche se non lavoriamo.
Le racconto che pagheremo l’I.C.I. ed i mutui sulle case distrutte. E ripartiranno regolarmente i pagamenti dei prestiti.
Anche per chi non ha più nulla.
Che, a luglio, un terremotato con uno stipendio lordo di 2.000 euro vedrà in busta paga 734 euro di retribuzione netta.
Che non solo torneremo a pagare le tasse, ma restituiremo subito tutte quelle non pagate dal 6 aprile.
Che lo stato non versa ai cittadini senza casa,che si gestiscono da soli, ben ventisettemila, neanche quel piccolo contributo di 200 euro mensili che dovrebbe aiutarli a pagare un affitto.
Che i prezzi degli affitti sono triplicati. Senza nessun controllo.
Che io pago, in un paesino di cinquecento anime, quanto Bertolaso pagava per un’appartamento in via Giulia, a Roma.

La sento respirare pesantemente.
Le parlo dei nuovi quartieri costruiti a prezzi di residenze di lusso.
Le racconto la vita delle persone che abitano lì. Come in alveari senz’anima. Senza neanche un giornalaio. O un bar.
Le racconto degli anziani che sono stati sradicati dalla loro terra. Lontani chilometri e chilometri.
Le racconto dei professionisti che sono andati via. Delle iscrizioni alle scuole superiori in netto calo. Le racconto di una città che muore.
E lei mi risponde, con la voce che le trema.
“Non è possibile che non si sappia niente di tutto questo. Non potete restare così! Chiamate i giornalisti televisivi. Dovete dirglielo. Chiamate la stampa. Devono scriverlo.”
Loro non scrivono; voi fate girare.”
Sono un bel segno di democrazia sul lavoro i risultati del referendum svoltosi ieri tra i dipendenti e gli operai della fabbrica Fiat di Pomigliano.
Molte son state le parole spese da tanti analisti. Fra questi, uno che seguo spesso e dai tempi dell’Università , è Luciano Gallino che secondo me scrive cose intelligenti.
Eccole:
A POMIGLIANO prevale il sì all’accordo con la Fiat. Non stravince, come la sua direzione avrebbe gradito. Dobbiamo però augurarci che la Fiat non prenda pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l’accordo, oppure per imporlo senza modificarne una virgola. Non soltanto nell’interesse dei lavoratori, ma anche della Fiat, e del paese, per le conseguenze sociali e politiche che ciò potrebbe avere. Vediamo perché.
In Italia la Fiat produce 650.000 vetture l’anno con 22.000 dipendenti. In Polonia ne produce 600.000 con 6.100 operai. In Brasile le vetture prodotte sono 730.000 e i dipendenti soltanto 9.400. Inoltre il costo del lavoro in quei due paesi, contributi sociali inclusi, è molto più basso. È vero che in Italia si costruisce un certo numero di vetture di classe più alta che non in Polonia o in Brasile. Pur con questa correzione il rapporto auto prodotte/dipendenti resta nettamente sfavorevole agli stabilimenti Fiat in Italia.
Ne segue che su due punti non vi possono essere dubbi. Le aspre condizioni di lavoro che Fiat intende introdurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con successo all’estero, sono la premessa per introdurle prima o poi in tutti gli stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli elettrodomestici al tessile e al made in Italy, sono migliaia le imprese italiane medie e piccole che possono dimostrare, dati alla mano, che in India o nelle Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una produzione pro capite di molto superiore agli impianti di casa. Che tale vantaggio sia stato acquisito con salari assai più bassi, sistemi di protezione sociale minimi o inesistenti, e orari molto più lunghi, non sembra ormai avere alcuna rilevanza. Certo non per il governo, e perfino per gran parte dei sindacati. Con l’applicazione totale del modello Fiat, le imprese si sentirebbero autorizzate a far ritornare una parte della produzione delocalizzata in Italia, alla semplice condizione che essa sia accompagnata da salari e condizioni di lavoro che si approssimano sempre più a quella dei lavoratori dei paesi emergenti.
Si tratta di vedere fino a che punto conviene alla Fiat voler passare testardamente alla storia delle relazioni industriali e della globalizzazione come l’impresa italiana che allo scopo di esportare al meglio i suoi prodotti ha dimostrato che si può apertamente importare il peggio delle condizioni di lavoro, per di più ricevendo il plauso del governo. Così facendo, infatti, la Fiat correrebbe, e farebbe correre al paese, diversi rischi. Il primo, se il suo modello tal quale prendesse piede, è quello di contribuire alla stagnazione della domanda interna, che è stata ed è uno dei maggiori fattori della recessione globale in cui il mondo si sta avvitando. D’accordo che lavoratori sfiniti dalla fatica e con i salari, al netto dell’inflazione, pressoché fermi da oltre un decennio, consumano pur sempre qualcosa in più di un disoccupato. Ma il modello Fiat farebbe tendenza, aprendo nuovi spazi di disuguaglianza di reddito tra gli strati inferiori e medi e il dieci per cento dello strato più alto della piramide sociale; i cui membri, per quanto affluenti, difficilmente compreranno quattro o cinque Panda a testa.
Un secondo rischio è quello di far crescere le tensioni sociali. Se il governo alzasse mai lo sguardo dai sondaggi, e il management Fiat dai diagrammi della produttività e dei costi di produzione, potrebbero rendersi conto che disoccupazione, sotto-occupazione, tagli allo stato sociale e percezione di una corruzione dilagante stanno alimentando per conto loro, nel nostro paese come in altri, diffuse situazioni di insofferenza per la curva all’ingiù che la qualità della vita ha ormai palesemente imboccato, e per le iniquità di cui molti si sentono vittime. Ampliare il numero dei malcontenti moltiplicando i lavoratori che sono perentoriamente costretti a scegliere, come a Pomigliano, tra lavoro degradato e disoccupazione, o assistervi senza fare nulla, è una pessima ricetta politica. Alla quale un’impresa dovrebbe evitare di aggiungere i suoi particolari ingredienti.
Per altro il rischio maggiore che Fiat corre e fa correre a tutti noi risiede nel dare una robusta mano a coloro che intendono demolire la costituzione repubblicana. La proposta ventilata di modificare come nulla fosse l’art. 41 della suprema legge, perché a qualcuno dà fastidio che la legge determini i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica possa essere indirizzata a fini sociali, come in fondo si dice in tutte le costituzioni, potrebbe venir liquidata come la dabbenaggine che è; ma se il lodo Pomigliano, chiamiamolo così, si affermasse lasciando intatte le sue licenze costituzionali, i nemici di quell’articolo ne trarrebbero un cospicuo vantaggio. Autorizzandoli pure a mettere in discussione, perché no, l’art. 36, secondo il quale il lavoratore ha diritto, nientemeno, a una retribuzione sufficiente in ogni caso ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E magari altri articoli a seguire, in tutto il Titolo III che riguarda i rapporti economici.
Portare a Pomigliano il grosso dell’organizzazione del lavoro vigente in Polonia sarebbe già un successo per la Fiat. Sul resto, ivi compresa la percentuale dei consensi alle sue proposte, forse le converrebbe, e converrebbe al paese, non esagerare con le richieste trancianti.
Fonte: http://www.repubblica.it/economia/2010/06/23/news/i_confini_del_lingotto-5073221/?ref=HREA-1
Mi ricordo che al mio esame di maturità scrissi un tema di attualità tutto centrato su Primo Levi. A ripensarci fu davvero bello scriverlo. Ad una prima sommaria lettura, le tracce di quest’anno mi sembrano interessanti, mi piacerebbe avere diciottanni…
Leggo sempre con apprensione le notizie di prelati impiastricciati di potere temporale. Crescenzio Sepe afferma che il Vaticano sapeva dei suoi movimenti finanziari, delle case di Propaganda Fide date ai potenti di turno, dei Vespa che prendono in fitto case da loro, come fossero una qualunque immobiliare per vip. E mi ricordo il mio cattolicesimo di bambino, affascinato più dal messaggio cristiano che dalla liturgia. Quanto siamo lontani dallo stupore dell’annuncio di Dio? Quanto soffre Gesu su quella alta croce?
Nella opulenta e democratica Reggio Emilia, una ragazzina autistica è stata allontanata ieri dal ristorante del centro commerciale “Meridiana” perché “allarma la clientela”. Non un ristorante di lusso, dunque, raffinato e snob; ma un putrido, rumoroso centro commerciale. Ed io penso che non esiste più nessun Dio, se non quello del codice a barre.
Leggo basito la polemica che alcuni giovani iscritti al PD hanno inaugurato, scrivendo una lettera al segretario Bersani e protestando per il saluto che all’ultima assemblea ha fatto loro l’attore Fabrizio Gifuni. Egli ha solo detto “Vedete, compagni e compagne, è tanto tempo che volevo dire così”…Mi viene in mente il modo con cui chiamo la mia partner, mi viene in mente l’etimo latino di una parola dolce e forte insieme. Compagna, compagno. Spezzare il pane insieme.
Ora io penso, molto seccamente, che il PD con quei giovani non andrà mai da nessuna parte, sarà solo la fotocopia sbiadita della PdL e, per certi aspetti, meglio così.
Mi irritano molte figure pubbliche dell’agone mediatico. Ma poche, in assoluto, come Lippi. Allenatore della nazionale che ritorna sullo stesso palcoscenico calcato trionfalmente nella Germania del 2006 e s’inventa una squadra senza qualità , senza talento, appesa nella speranza che torni presto l’uomo triste Pirlo, presunta panacea di ogni male.
Ho visto la partita con la Nuova Zelanda e penso, come sempre, che il calcio è simile alla vita, a volte anche più bello. Per questo mi commuovo leggendo Soriano o Pastorin. Perché poi magari sta squadra di pecoroni vince il mondiale (non ci credono manco loro…).
La squadra messa in campo ieri era completamente sbagliata. Comunque la si pensi, il calcio vive di regole e schemi, tanto più oggi (leggere all’uopo il geniale libro “Interismo, leninismo” di Luigi Cavallaro), al tempo del calcio totale, collettivizzato, socializzato.
Se quell’odioso canuto signore si fosse portato gente come Balotelli, Cassano, Miccoli e se avesse messo in campo dal primo momento Di Natale - lasciando in panchina un cadaverico Marchisio - , giocando sulle fasce, imponendo ai suoi giocatori senza passione di saltare l’uomo e andare sulle ali per metterla in mezzo, forse ci saremmo - quantomeno - divertiti di più. E si sarebbe divertito di più anche quel povero diavolo di Gilardino, ottimo attaccante centrale. Quando gli passano la palla.
Invece dobbiamo assistere ad una mesta conferenza stampa in cui l’anziano mister difende la scelta di aver sostituito Pepe, l’unico esterno brioso che avevamo - per tener dentro la truppa juventina, capeggiata dall’ombra di se stesso, Fabio Cannavaro che ancora ci si chiede, noi amanti del bel calcio, ma perché?
E’ morto José Saramago. Ed io non mi sento tanto bene.
Se dovessi dare, à la Nick Hornby, la mia classifica dei cinque libri più belli mai letti, di sicuro citerei “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” di Saramago. L’eretico.
Addio Josè, ci mancherai.
Riceviamo e pubblichiamo questo ricordo del regista pugliese Carlo Michele Schirinzi dedicato a Corso Salani.
Avevo sentito parlare molto di Corso Salani nei festival cinematografici e negli ambienti indipendenti. Massimo Causo mi spronava a non perdermi d’animo e non arrendermi per il lungometraggio, pensa a Corso Salani, diceva, ha dei budget ridottissimi ma riesce a fare delle grandi cose. Read all »
L’Apulia Film Commission piange la scomparsa, improvvisa e ingiusta, di Corso Salani. Attore e regista di unica sensibilità e tatto.
Ciao Corso.
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