Inizio del menù
Fine del menù
Sono orgoglioso che la mia regione, il mio Presidente, abbiano sostenuto per nostro tramite la produzione del film tv ‘Pane e libertà ’ sulla vita del grande Peppino Di Vittorio.
Ieri, in conferenza stampa in Rai, sentir parlare Vendola mi ha inorgoglito e fatto sentire vivo, nella tensione emotiva ed etica, nei valori alti repubblicani e costituzionali.
Perché uomini così ne nascono uno ogni cinquantanni?
Ma poi non sono mica sicuro che quello che ho scritto ieri, d’impronta, vedendo tanti sogni gettati per terra in un padiglione fieristico in attesa di un provino, sia poi così giusto. O meglio: non sono un moralista, nè posso giudicare i sogni altrui. Ho solo pensato, vedendo quei ragazzi, ai sogni miei e a quante illusioni venda la tv.
Questa mattina la nostra sede operativa è stata invasa da svariate decine (centinaia forse?) di ragazzi e ragazze in attesa di svolgere il casting di una trasmissione televisiva di cui ometto il nome.
Facce. Speranze. Illusioni.
Di questo mio mestiere che faccio da 9 anni ormai, questa qui è la parte più triste. E mi chiedo cosa li spinga ad essere qui. Certo trovo le conferme ai miei sogni ad occhi aperti: i cineporti sono una cosa geniale, e me lo dico da solo va bene…
Ma questi ragazzi e ragazze qui fuori, invece, ho tanta paura che sognino ad occhi chiusi e che il loro risveglio sarà tremendo. Che mondo è questo?
Pubblico anche questo intervento di Paolo De Cesare. Interessante, ma su questo mi riservo, prima o poi, di dire delle cose.
Alessandro Baricco ha scritto cose importanti su ‘La Repubblica’ di oggi. Si può essere d’accordo oppure no, ed io le pubblico qui, perchè penso che dovremmo discutere di questa idea. Noi qui dentro, e tutto il mondo lì fuori.
Di Alessandro Baricco
Sotto la lente della crisi economica, piccole crepe diventano enormi, nella ceramica di tante vite individuali, ma anche nel muro di pietra del nostro convivere civile. Una che si sta spalancando, non sanguinosa ma solenne, è quella che riguarda le sovvenzioni pubbliche alla cultura. Il fiume di denaro che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni. Dato che il fiume si sta estinguendo, ci si interroga. Si protesta. Si dibatte. Un commissariamento qui, un’indagine per malversazione là , si collezionano sintomi di un’agonia che potrebbe anche essere lunghissima, ma che questa volta non lo sarà . Sotto la lente della crisi economica, prenderà tutto fuoco, molto più velocemente di quanto si creda.
In situazioni come queste, nei film americani puoi solo fare due cose: o scappi o pensi molto velocemente. Scappare è inelegante. Ecco il momento di pensare molto velocemente. Lo devono fare tutti quelli cui sta a cuore la tensione culturale del nostro Paese, e tutti quelli che quella situazione la conoscono da vicino, per averci lavorato, a qualsiasi livello. Io rispondo alla descrizione, quindi eccomi qui. In realtà mi ci vorrebbe un libro per dire tutto ciò che penso dell’intreccio fra denaro pubblico e cultura, ma pensare velocemente vuol dire anche pensare l’essenziale, ed è ciò che cercherò di fare qui.
Se cerco di capire cosa, tempo fa, ci abbia portato a usare il denaro pubblico per sostenere la vita culturale di un Paese, mi vengono in mente due buone ragioni. Prima: allargare il privilegio della crescita culturale, rendendo accessibili i luoghi e i riti della cultura alla maggior parte della comunità . Seconda: difendere dall’inerzia del mercato alcuni gesti, o repertori, che probabilmente non avrebbero avuto la forza di sopravvivere alla logica del profitto, e che tuttavia ci sembravano irrinunciabili per tramandare un certo grado di civiltà .
A queste due ragioni ne aggiungerei una terza, più generale, più sofisticata, ma altrettanto importante: la necessità che hanno le democrazie di motivare i cittadini ad assumersi la responsabilità della democrazia: il bisogno di avere cittadini informati, minimamente colti, dotati di principi morali saldi, e di riferimenti culturali forti. Nel difendere la statura culturale del cittadino, le democrazie salvano se stesse, come già sapevano i greci del quinto secolo, e come hanno perfettamente capito le giovani e fragili democrazie europee all’indomani della stagione dei totalitarismi e delle guerre mondiali.
Adesso la domanda dovrebbe essere: questi tre obbiettivi, valgono ancora? Abbiamo voglia di chiederci, con tutta l’onestà possibile, se sono ancora obbiettivi attuali? Io ne ho voglia. E darei questa risposta: probabilmente sono ancora giusti, legittimi, ma andrebbero ricollocati nel paesaggio che ci circonda. Vanno aggiornati alla luce di ciò che è successo da quando li abbiamo concepiti. Provo a spiegare.
Prendiamo il primo obbiettivo: estendere il privilegio della cultura, rendere accessibili i luoghi dell’intelligenza e del sapere. Ora, ecco una cosa che è successa negli ultimi quindici anni nell’ambito dei consumi culturali: una reale esplosione dei confini, un’estensione dei privilegi, e un generale incremento dell’accessibilità . L’espressione che meglio ha registrato questa rivoluzione è americana: the age of mass intelligence, l’epoca dell’intelligenza di massa.
Oggi non avrebbe più senso pensare alla cultura come al privilegio circoscritto di un’élite abbiente: è diventata un campo aperto in cui fanno massicce scorribande fasce sociali che da sempre erano state tenute fuori dalla porta. Quel che è importante è capire perché questo è successo. Grazie al paziente lavoro dei soldi pubblici? No, o almeno molto di rado, e sempre a traino di altre cose già successe. La cassaforte dei privilegi culturali è stata scassinata da una serie di cause incrociate: Internet, globalizzazione, nuove tecnologie, maggior ricchezza collettiva, aumento del tempo libero, aggressività delle imprese private in cerca di un’espansione dei mercati. Tutte cose accadute nel campo aperto del mercato, senza alcuna protezione specifica di carattere pubblico.
Se andiamo a vedere i settori in cui lo spalancamento è stato più clamoroso, vengono in mente i libri, la musica leggera, la produzione audiovisiva: sono ambiti in cui il denaro pubblico è quasi assente. Al contrario, dove l’intervento pubblico è massiccio, l’esplosione appare molto più contratta, lenta, se non assente: pensate all’opera lirica, alla musica classica, al teatro: se non sono stagnanti, poco ci manca. Non è il caso di fare deduzioni troppo meccaniche, ma l’indizio è chiaro: se si tratta di eliminare barriere e smantellare privilegi, nel 2009, è meglio lasciar fare al mercato e non disturbare. Questo non significa dimenticare che la battaglia contro il privilegio culturale è ancora lontana dall’essere vinta: sappiamo bene che esistono ancora grandi caselle del Paese in cui il consumo culturale è al lumicino. Ma i confini si sono spostati. Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione. Quando si parla di fondi pubblici per la cultura, non si parla di scuola e di televisione. Sono soldi che spendiamo altrove. Apparentemente dove non servono più. Se una lotta contro l’emarginazione culturale è sacrosanta, noi la stiamo combattendo su un campo in cui la battaglia è già finita.
Secondo obbiettivo: la difesa di gesti e repertori preziosi che, per gli alti costi o il relativo appeal, non reggerebbero all’impatto con una spietata logica di mercato. Per capirci: salvare le regie teatrali da milioni di euro, La figlia del reggimento di Donizetti, il corpo di ballo della Scala, la musica di Stockhausen, i convegni sulla poesia dialettale, e così via. Qui la faccenda è delicata. Il principio, in sé, è condivisibile. Ma, nel tempo, l’ingenuità che gli è sottesa ha raggiunto livelli di evidenza quasi offensivi.
Il punto è: solo col candore e l’ottimismo degli anni Sessanta si poteva davvero credere che la politica, l’intelligenza e il sapere della politica, potessero decretare cos’era da salvare e cosa no. Se uno pensa alla filiera di intelligenze e saperi che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico, passando per i vari assessori, siamo proprio sicuri di avere davanti agli occhi una rete di impressionante lucidità intellettuale, capace di capire, meglio di altri, lo spirito del tempo e le dinamiche dell’intelligenza collettiva? Con tutto il rispetto, la risposta è no. Potrebbero fare di meglio i privati, il mercato? Probabilmente no, ma sono convinto che non avrebbero neanche potuto fare di peggio.
Mi resta la certezza che l’accanimento terapeutico su spettacoli agonizzanti, e ancor di più la posizione monopolistica in cui il denaro pubblico si mette per difenderli, abbiano creato guasti imprevisti di cui bisognerebbe ormai prendere atto. Non riesco a non pensare, ad esempio, che l’insistita difesa della musica contemporanea abbia generato una situazione artificiale da cui pubblico e compositori, in Italia, non si sono più rimessi: chi scrive musica non sa più esattamente cosa sta facendo e per chi, e il pubblico è in confusione, tanto da non capire neanche più Allevi da che parte sta (io lo so, ma col cavolo che ve lo dico).
Oppure: vogliamo parlare dell’appassionata difesa del teatro di regia, diventato praticamente l’unico teatro riconosciuto in Italia? Adesso possiamo dire con tranquillità che ci ha regalato tanti indimenticabili spettacoli, ma anche che ha decimato le file dei drammaturghi e complicato la vita degli attori: il risultato è che nel nostro paese non esiste quasi più quel fare rotondo e naturale che mettendo semplicemente in linea uno che scrive, uno che recita, uno che mette in scena e uno che ha soldi da investire, produce il teatro come lo conoscono i paesi anglosassoni: un gesto naturale, che si incrocia facilmente con letteratura e cinema, e che entra nella normale quotidianità della gente.
Come vedete, i principi sarebbero anche buoni, ma gli effetti collaterali sono incontrollati. Aggiungo che la vera rovina si è raggiunta quando la difesa di qualcosa ha portato a una posizione monopolistica. Quando un mecenate, non importa se pubblico o privato, è l’unico soggetto operativo in un determinato mercato, e in più non è costretto a fare di conto, mettendo in preventivo di perdere denaro, l’effetto che genera intorno è la desertificazione. Opera, teatro, musica classica, festival culturali, premi, formazione professionale: tutti ambiti che il denaro pubblico presidia più o meno integralmente. Margini di manovra per i privati: minimi. Siamo sicuri che è quello che vogliamo? Siamo sicuri che sia questo il sistema giusto per non farci derubare dell’eredità culturale che abbiamo ricevuto e che vogliamo passare ai nostri figli?
Terzo obbiettivo: nella crescita culturale dei cittadini le democrazie fondano la loro stabilità . Giusto. Ma ho un esempietto che può far riflettere, fatalmente riservato agli elettori di centrosinistra. Berlusconi. Circola la convinzione che quell’uomo, con tre televisioni, più altre tre a traino o episodicamente controllate, abbia dissestato la caratura morale e la statura culturale di questo Paese dalle fondamenta: col risultato di generare, quasi come un effetto meccanico, una certa inadeguatezza collettiva alle regole impegnative della democrazia. Nel modo più chiaro e sintetico ho visto enunciata questa idea da Nanni Moretti, nel suo lavoro e nelle sue parole. Non è una posizione che mi convince (a me Berlusconi sembra più una conseguenza che una causa) ma so che è largamente condivisa, e quindi la possiamo prendere per buona. E chiederci: come mai la grandiosa diga culturale che avevamo immaginato di issare con i soldi dei contribuenti (cioè i nostri) ha ceduto per così poco?
Bastava mettere su tre canali televisivi per aggirare la grandiosa cerchia di mura a cui avevamo lavorato? Evidentemente sì. E i torrioni che abbiamo difeso, i concerti di lieder, le raffinate messe in scena di Cechov, la Figlia del reggimento, le mostre sull’arte toscana del quattrocento, i musei di arte contemporanea, le fiere del libro? Dov’erano, quando servivano? Possibile che non abbiano visto passare il Grande Fratello? Sì, possibile. E allora siamo costretti a dedurre che la battaglia era giusta, ma la linea di difesa sbagliata. O friabile. O marcia. O corrotta. Ma più probabilmente: l’avevamo solo alzata nel luogo sbagliato.
Riassunto. L’idea di avvitare viti nel legno per rendere il tavolo più robusto è buona: ma il fatto è che avvitiamo a martellate, o con forbicine da unghie. Avvitiamo col pelapatate. Fra un po’ avviteremo con le dita, quando finiranno i soldi.
Cosa fare, allora? Tenere saldi gli obbiettivi e cambiare strategia, è ovvio. A me sembrerebbe logico, ad esempio, fare due, semplici mosse, che qui sintetizzo, per l’ulcera di tanti.
1. Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo? Che senso ha salvare l’Opera e produrre studenti che ne sanno più di chimica che di Verdi? Cosa vuol dire pagare stagioni di concerti per un Paese in cui non si studia la storia della musica neanche quando si studia il romanticismo? Perché fare tanto i fighetti programmando teatro sublime, quando in televisione già trasmettere Benigni pare un atto di eroismo? Con che faccia sovvenzionare festival di storia, medicina, filosofia, etnomusicologia, quando il sapere, in televisione - dove sarebbe per tutti - esisterà solo fino a quando gli Angela faranno figli? Chiudete i Teatri Stabili e aprite un teatro in ogni scuola. Azzerate i convegni e pensate a costruire una nuova generazione di insegnanti preparati e ben pagati. Liberatevi delle Fondazioni e delle Case che promuovono la lettura, e mettete una trasmissione decente sui libri in prima serata. Abbandonate i cartelloni di musica da camera e con i soldi risparmiati permettiamoci una sera alla settimana di tivù che se ne frega dell’Auditel.
Lo dico in un altro modo: smettetela di pensare che sia un obbiettivo del denaro pubblico produrre un’offerta di spettacoli, eventi, festival: non lo è più. Il mercato sarebbe oggi abbastanza maturo e dinamico da fare tranquillamente da solo. Quei soldi servono a una cosa fondamentale, una cosa che il mercato non sa e non vuole fare: formare un pubblico consapevole, colto, moderno. E farlo là dove il pubblico è ancora tutto, senza discriminazioni di ceto e di biografia personale: a scuola, innanzitutto, e poi davanti alla televisione.
La funzione pubblica deve tornare alla sua vocazione originaria: alfabetizzare. C’è da realizzare una seconda alfabetizzazione del paese, che metta in grado tutti di leggere e scrivere il moderno. Solo questo può generare uguaglianza e trasmettere valori morali e intellettuali. Tutto il resto, è un falso scopo.
2. Lasciare che negli enormi spazi aperti creati da questa sorta di ritirata strategica si vadano a piazzare i privati. Questo è un punto delicato, perché passa attraverso la distruzione di un tabù: la cultura come business. Uno ha in mente subito il cattivo che arriva e distrugge tutto. Ma, ad esempio, la cosa non ci fa paura nel mondo dei libri o dell’informazione: avete mai sentito la mancanza di una casa editrice o di un quotidiano statale, o regionale, o comunale? Per restare ai libri: vi sembrano banditi Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Adelphi, per non parlare dei piccoli e medi editori? Vi sembrano pirati i librai? È gente che fa cultura e fa business. Il mondo dei libri è quello che ci consegnano loro. Non sarà un paradiso, ma l’inferno è un’altra cosa. E allora perché il teatro no? Provate a immaginare che nella vostra città ci siano quattro cartelloni teatrali, fatti da Mondadori, De Agostini, Benetton e vostro cugino. È davvero così terrorizzante? Sentireste la lancinante mancanza di un Teatro Stabile finanziato dai vostri soldi?
Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell’ambito della cultura. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull’accessibilità economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti. Basta con l’ipocrisia delle associazioni o delle fondazioni, che non possono produrre utili: come se non fossero utili gli stipendi, e i favori, e le regalie, e l’autopromozione personale, e i piccoli poteri derivati. Abituiamoci ad accettare imprese vere e proprie che producono cultura e profitti economici, e usiamo le risorse pubbliche per metterle in condizione di tenere prezzi bassi e di generare qualità . Dimentichiamoci di fargli pagare tasse, apriamogli l’accesso al patrimonio immobiliare delle città , alleggeriamo il prezzo del lavoro, costringiamo le banche a politiche di prestito veloci e superagevolate.
Il mondo della cultura e dello spettacolo, nel nostro Paese, è tenuto in piedi ogni giorno da migliaia di persone, a tutti i livelli, che fanno quel lavoro con passione e capacità : diamogli la possibilità di lavorare in un campo aperto, sintonizzato coi consumi reali, alleggerito dalle pastoie politiche, e rivitalizzato da un vero confronto col mercato. Sono grandi ormai, chiudiamo questo asilo infantile. Sembra un problema tecnico, ma è invece soprattutto una rivoluzione mentale. I freni sono ideologici, non pratici. Sembra un’utopia, ma l’utopia è nella nostra testa: non c’è posto in cui sia più facile farla diventare realtà .
24 febbraio 2009
Il dibattito viene alimentato da Angelo Amoroso D’Aragona che, come capita spessissimo, scrive cose intelligenti. Mi permetto, dunque, senza il suo preventivo consenso, di pubblicare il suo intervento apparso in una mailing list cui sono iscritto. Se il diretto interessato non lo ritiene opportuno, sono a disposizione in qualunque momento per eliminare il post.
A seguire, dibattito…
“il fatto che l’intervento di Paolo sia stato ripreso dal Direttore della Film Commission prova che sarà pure una provocazione ma uno scherzo non è. A Fabio mi verrebbe da chiedere cosa gli ha prodotto di buono il sistema delle “opere prime”. Vogliamo dirci con franchezza cosa significa? Come CINECLUB DEI RECIDIVI proiettammo il documentario di Anton Giulio Mancini in cui Giancarlo Santi (”Facevo er cinema”) lo spiegava con grande efficacia. Capirlo sulla propria pelle è peggio! Un produttore passa assegni prende dei soldi per far fare un’opera
prima ad un (presunto) autore (presunto perchè il produttore non ha fatto nulla per accertarsi che lo sia, ha solo contato il numero di pagine della sceneggiatura che non ha pagato ma opzionato si), avuti i soldi si preoccupa solo di gonfiare i costi e spendere il meno possibile o nel miglior dei casi ti fa fare il film più o meno come vuoi tu ma non si preoccupa minimamente di farti da sparring partner, di discutere con te la sceneggiatura (che fa schifo e negli USA
riscrivono 20 venti ma in Italia prima non si paga e dopo non si tocca perché il Ministero se no non paga), di litigare sui punti deboli del film, insomma di decidere le strategie di quello che volente o nolente oltre che una (presunta) opera d’arte è e deve essere un “prodotto”.
Ma come mai allora chi produce un prodotto non è interessato al suo esito commerciale? Ovvio il perché. E’ molto comodo che il prodotto costi poco incassi meno, mettersi in tasca la rimanenza del costo ufficiale rispetto a quello reale, fare spalluccie sull’esito del film che è colpa del regista e aprire la porta al prossimo, tanto di OPERE
PRIME si tratta, o no?! Ma allora sì: Venga avanti il prossimo! Siamo tutti MATERIA PRIMA DI UNA TRUFFA LEGALIZZATA. Detto ciò, caro Fabio, siamo sicuri che perdere l’anima e anni di sacrifici per un flop annunciato sia la strada migliore? Certo a qualcuno va bene ma deve arrivare al terzo film perchè di fatto incominci da zero, tutto da
capo e senza che le prime due ti siano servite, anzi. Non mi sembra che la provocazione di Paolo sia quindi proprio una provocazione. Lo stesso Film Fund ha dato dei contributi a opere inizialmente non passate dal Fondo, una perché in concorso a Venezia, l’altra a Torino. Non è mestiere mio trovare soluzioni a questi quesiti ma io ho
comprato l’HDV e ci sto provando. Avevo giurato a me stesso di non fare più investimenti produttivi e concentrarmi solo sulla mia persona. Sono tornato sui miei passi e non mi sono pentito, pur tra le mille difficoltà . La più grande di queste difficoltà - e chiudo - è però quella di non vivere e lavorare in un ambiente dove soffi davvero
un vento di indipendenza. Non ha mai soffiato in Italia dove il cinema ministeriale si autodefinisce indipendente (da che?) e men che mai soffia in Puglia, a Bari in particolare. Mi dispiace dirlo ma è così. La fatica con cui costruiamo Recidivi ne è la conferma. Sono stato tre volte in nord America e la differenza è palpabile. L’ultima volta ho
intervistato un film maker albanese che vive con moglie figli in un buco e con un condominio che ve lo raccomando. In casa aveva il doppio delle mie attrezzature, amici con un Teatro Off all’angolo, amici che lavorano per History Channel, altri albanesi che lavorano a RAI Corporation grazie alla lotteria Green Card ecc ecc. Forse che loro
hanno solo il mercato e quindi gli viene più facile? Forse dovremmo chiederci non come fare perchè diano i soldi solo ai veri autori e per veri capolavori ma come fare a far nascere un Mercato perché solo con questo si possono avere le condizioni per provarci ANCHE ad essere autori e fare capolavori (magari con qualche correttivo ma pensiamoci
una volta che il mercato lo abbiamo).”
Angelo Anamorfo
Sono per caso incappato su questi link che raccontano il 1° settembre 2007, giorno in cui durante il festival di Venezia abbiamo presentato la Apulia Film Commission.
Non so perchè, ma credo sia giusto condividerlo con chiunque voi siate.
Allora c’eravamo solo io e il CdA, poi arrivò Raffaella e tutto il resto.
Se mi fermo a pensare che era solo un anno e mezzo fa, vengono le vertigini.
Davvero.
http://current.com/items/89827843/il_cinema_si_sposta_in_puglia_fine.htm
http://current.com/items/89827820/il_cinema_si_sposta_in_puglia_2.htm
http://current.com/items/89827833/il_cinema_si_sposta_in_puglia_3.htm
Esempi, non so se siano da seguire, ma sono esempi di regionalismo spinto. In Italia la Sicilia, potendo contare su statuto speciale e fondi dedicati a gò-gò ha investito (così risulta dalla stampa) circa undici (11) milioni di euro per fare la serie Agrodolce (clamoroso insuccesso) e gli stabilimenti desertici di Termini Imerese. Vabbè, riflettiamoci dai…
“PARIGI, 17 FEB – Un nuovo polo per il cinema e l’audiovisivo, Pixel, che intende fare concorrenza agli studios parigini, ha aperto le porte a Villeurbanne, alla periferia di Lione.
L’obiettivo di Pixel è di posizionarsi sul mercato francese e quello europeo. Dei dieci studios francesi sette si trovano nella regione parigina, gli altri tre a Nizza, Marsiglia e, oramai, Villeurbanne, nei cui studi ultramoderni potrà essere eseguita la produzione e la post-produzione di lungometraggi, telefilms, serie televisive, pubblicità . Il polo si estende su 13.000 mq ed è costituito dallo Studio 24, inaugurato nel 2002 (900 mq) e dei due nuovi battezzati Louis Lumiere e Auguste Lumiere, costruiti sul sito degli Antichi Mulini di Strasburgo, di 800 e 350 mq . I lavori erano cominciati a fine 2007, sulla spinta di una forte mobilitazione di imprese locali e regionali pubbliche e private, per accrescere le strutture e l’attrattività del settore audiovisivo nella regione Rhone-Alpes . La gestione di Pixel è affidata a Rhone-Alpes Cinema, struttura che vede la regione come azionista di riferimento e ha i suoi uffici sull’antico sito industriale dove sorge ora il nuovo polo, che ospita anche atelier per le scenografie.”
Ricevo nella mia casella di posta elettronica privata e mi permetto, senza il suo consenso, che immagino di poter avere ‘moralmente’ questo post di Paolo De Cesare. Già si sono levate voci critiche, ma la sua proposta pur assai provocatoria, è una traccia che indica problemi che - prima o poi - andranno pur risolti. Il dibattito no?!!
“Un altro pianeta di Stefano Tummolini è stato presentato con successo venerdì 13 febbraio a Monopoli (Bari) nell’ambito della rassegna Sguardi di Cinema Italiano. Il regista e l’attore protagonista Antonio Merone; davanti ad una sala come sempre gremita, hanno risposto alle domande del pubblico e agli stimoli del direttore Michele Suma. Prodotto e distribuito dalla Ripley’s, è stato l’unico film italiano selezionato all’ultimo Sundance Film Festival.
L’opera prima di Tummolini, già sceneggiatore e collaboratore di Ponzi e Ozpetek (Il bagno turco), è stata presentata anche alle Giornate degli Autori dello scorso anno, ed è interpretata da un gruppo di giovani attori provenienti dal teatro.
Il Film, girato in HDV, tutto in esterni e con una unica location, (la spiaggia e le dune di Capracotta) ha avuto un budget di produzione di 980euro, segno che fare un buon Film non è questione di soldi ma di una buona scrittura. Una scrittura che si è compiuta nella sua formula finale dopo otto anni dall’elaborazione dell’idea. L’attore, ed anche sceneggiatore, Merone ha citato casi di “manifesti nervosismi” di altri autori e videomakers che si sono lamentati circa l’effetto negativo che il “Caso” di questo Film può avere circa il potere contrattuale finanziario di tutti. Per la distribuzione sono state stampate 10 copie. Certo se fosse stato girato in 35mm non avrebbe avuto una diversa attenzione dal sistema distributivo. Non è questione di supporto.
Probabilmente occorrerebbe sospendere per 2 anni i finanziamenti alle “Opere Prime” per i lungometraggi e aiutarne solo la distribuzione.Oppure finanziare in parte la produzione solo se in digitale HDV e finanziare la vidigrafazione (in attesa delle sale digitali) solo se l’opera completata supera il test di campioni di pubblico e Festivals.
Sospendere altresì tutti i finanziamenti pubblici ed anche dei Film Fund locali alla produzione dei cortometraggi di finzione ( che non trovano alcuna collocazione di mercato se non in una polverizzata scena di Festivals), per costringere a riflettere su che cosa vuol dire il mezzo digitale, l’HD, i nuovi supporti di memeoria, il nuovo modo di consumare il prodotto audiovisivo.”
Un cordiale saluto.
Paolo l. De Cesare
Torna per il secondo anno al cinema ABC - Centro di cultura cinematografica di Bari la rassegna di vecchi e meno vecchi film in 35 mm, realizzata grazie alla [...]
Tra le iniziative prioritarie che l’Apulia Film Commission ha adottato sin dalla sua costituzione, un posto di assoluto rilievo spetta alla divulgazione [...]
Nel segno del rispetto per l’ambiente e per i suoi ritmi naturali, tra danza, musica, filosofia e teatro. Si muove in questa direzione la rassegna [...]
Il 25 Giugno dalle ore 10:00 alle ore 17:00 presso il Cineporto di Bari si terrà il casting per “Giulietta”. Si [...]
La Cine Art Entertainment di Bari cerca ruoli e comparse per il cortometraggio “Vite Segnate” regia di Michele [...]
ALTERA STUDIO cerca differenti ruoli per una serie di spot ministeriali per la regia di Roberto Tafuro da girare in Puglia [...]
29 June 2012 - silvio.maselli
Se per oltre tre anni ti svegli la mattina alle cinque, saluti tuo figlio piccolo e tuo marito, prendi la macchina e raggiungi la stazione di Lecce, prendi il treno e arrivi a Bari, attendi [...]
28 June 2012 - silvio.maselli
I colleghi che hanno fatto in questi anni la Friuli Venezia Giulia Film Commission sono stati un esempio per tutti noi. Hanno inventato il funding per l’audiovisivo, dotandosi di regole [...]
27 June 2012 - silvio.maselli
Si può fare tutto in questo Paese, stuprare la Costituzione, approvare leggi elettorali orrende, approvare una cosa che si chiama IMU e dare la colpa a Monti per la sua introduzione, ma quando [...]